Niente sconti: la marea nera degli All Blacks travolge l’Italrugby- di Teo Parini

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A scanso di equivoci, è stata una carneficina, sangue sparso ovunque. l’Italia del rugby rimedia al cospetto degli All Blacks un’umiliazione che sarà difficile mettersi alle spalle, figlia di un risultato che a definire severo si pecca di ottimismo e che, per ironia della sorte, non è nemmeno la cosa più brutta che si sia vista ieri sera a Lione; nonostante l’imbarazzante quota cento sfiorata dai Tutti Neri capaci di punirci sotto una grandinata di quattordici mete a due.

Partiamo dal salvabile, ammesso si riesca a trovarlo. Per i nostri, vanno a segno a match ormai in ghiaccio Capuozzo e Ioane, le ali dello schieramento iniziale, due diamanti che farebbero le fortune di quasi ogni compagine. Se abbiamo le ossa rotte non è certo colpa loro, benché di palle in mano per fare valere una corsa da centometristi ne abbiano ricevute col contagocce. Giù il cappello anche per Negri, ariete commovente e testardo, che per ottanta minuti non ha mai smesso di cercare di andare oltre la linea del placcaggio, tutto cuore e quadricipiti spingenti, talvolta riuscendoci. Di tutto il resto, francamente, avremmo il piacere di non parlare, troppo brutto per corrispondere a realtà, ma ci tocca.
Perché, se è vero che nei rapporti di forza di questo rugby l’Italia è ancora lontana dalla Nuova Zelanda anche dalla sua versione meno luminescente dell’ultimo mezzo secolo, è altrettanto vero che, nello sport, perdere contro un avversario più forte non è mai un dramma in sé ma come decidi di farlo può benissimo diventarlo. L’Italia ha scelto il modo peggiore, quello di smettere di giocare alla prima difficoltà. Che, al cospetto di avversari messi all’angolo dall’opinione pubblica che non gli perdona la scoppola rimediata contro la Francia e in una disciplina che non prevede per desossiribonucleico la pietà per il nemico perché contraria all’idea rugbistica di rispetto, significa, appunto, un massacro. Nello sci alpino, sarebbe come affrontare le lastre di ghiaccio della Streif a Kitzbuhel senza uno sci e sperare di non finire al pronto soccorso. Impossibile.

Non essendo qui a vendere tappeti, il punto focale è che questa Italia avrebbe rimediato la stessa avvilente imbarcata da almeno un’altra decina di squadre, perché sarebbe bastata una competenza assai minore di quella neozelandese per disporre del quindici azzurro in questa sua impalpabile e tremebonda versione. Brutta bestia la psiche umana in quanto, se l’Italia non era certo una squadra di fenomeni quando batteva Namibia e Uruguay, è altrettanto pacifico che non è diventata una squadra di brocchi alla quale si potrebbe perdonare e la scoppola. Insomma, qualcosa del nostro pacchetto fatto di testa, cuore e muscoli, è andato storto oltre ogni pessimistica previsione.

Il problema contingente che un esterrefatto Crowley dovrà affrontare è che tra una settimana ci aspetta il probabile remake, perché i formidabili cugini d’oltralpe, allo stato attuale, sono financo un gradino sopra agli All Blacks e, come non bastasse, giocano in casa sospinti da un pubblico che chiede di centrare il bersaglio grosso. Tanti auguri. Fa rabbia, perché il roster azzurro, in quanto a qualità individuale e di amalgama, aveva la possibilità di regalarsi una partita vera e non da comparsa e, sebbene nessuno sano di mente avrebbe mai preteso la vittoria, la speranza di veder compiere un piccolo ma significativo passo in avanti nel nostro percorso di crescita era abbondantemente legittima. Invece, questa mattina ci siamo risvegliati inchiodati al punto di partenza dopo aver vanificato il lavoro di un allenatore a cui si deve comunque molto, se non altro per aver portato alle nostre latitudini uno spettacolare gioco alla mano come forse non si era mai visto prima.
Qualche minuto incoraggiante caratterizzato da body language propositivo e una sbavatura, di quelle che fanno tanto imbufalire gli allenatori, che giustamente pretendono disciplina a certi livelli, dà il via alla prima metà degli All Blacks. Assist al bacio con un calcetto morbido per l’accorrente Jordan lungo il lato destro del campo, controllo in volo dell’ovale e palla schiacciata in meta. Meraviglia di fantasia e tecnica individuale che ha l’effetto sull’Italia che una caduta dal tavolo ha sul suppellettile di cristallo. Non sono passati che pochi giri di lancetta e il nostro morale è già in frantumi. Mille microscopici pezzettini. Tanto che gli azzurri risultano incapaci di ancorarsi anche a un solo frangente di gioco per provare ad arginare la marea nera libera di imperversare.
La mischia non tiene l’urto di quella rivale, anzi, viene ripetutamente spazzata via. Dalla touche portiamo a casa uno scempio dietro l’altro, tra incomprensioni e lanci storti al limite dell’imbarazzo. Commettiamo falli senza soluzione di continuità, la solita cronica indisciplina, restituendo la palla agli avversari senza mai contenderla. Lapalissiano, ma è difficile fare gioco se la palla non ce l’hai. Ai punti di incontro ci arriviamo molli e in ritardo, come se volessimo concedere la precedenza ad un incrocio stradale. Soprattutto, non placchiamo praticamente mai, e se in un quarto d’ora i placcaggi sbagliati sono già una quindicina – per i meno avvezzi alla materia, un’enormità – ecco che non deve stupire se all’intervallo i punti sul groppone sono già cinquanta. Siamo onesti, in quelle condizioni deficitarie sarebbe potuto andare anche peggio.

Senza concretezza nelle fasi statiche quando il possesso dell’ovale è a disposizione, mischia con introduzione e rimessa laterale, è come giocare a biliardo senza sponde, un follia. È la devastante sensazione che devono aver provato gli italiani quando l’assioma per il quale a un’azione di attacco corrispondesse sempre una meta (subita) ha cominciato a caratterizzare l’incontro. Un invito a nozze per una Nuova Zelanda che, come si diceva a valle del match, ci ha riservato l’onore di mettere in campo la migliore formazione possibile ma che, con il senno del poi, avrebbe potuto schierare un magazziniere all’ala e l’addetto stampa a tallonare senza risentirne nemmeno un po’. Con rispetto parlando, non abbiamo saputo fare meglio, perché peggio era francamente difficile, di una Namibia qualunque e, senza dimenticare che c’è sempre un avversario forte dall’altra parte del campo, è qualcosa che può essere attribuito solo da un fragoroso cedimento mentale che ha anticipato il calcio d’inizio. In altre parole, siamo scesi in trincea senza l’elmetto. Agli All Blacks vanno tutti i meriti del caso, e non sono pochi, tuttavia siamo riusciti nell’impresa di fare tutto ciò che potesse essere funzionale alla nostra disfatta. Un peccato mortale.

Con la qualificazione per la prossima edizione dei Mondiali già in tasca, almeno l’obiettivo minimo ma non scontato lo abbiamo raggiunto, c’è ancora un’ultima occasione per esibire un volto più veritiero e rappresentativo del nostro status. Con Irlanda e Sudafrica, la Francia rappresenta l’odierno vertice della piramide del rugby e avremo l’onore e l’onere di affrontarla nella partita conclusiva della nostra permanenza in questo mondiale. Avremo tempo e modo di analizzare la partita e capire se sussiste il modo per limitare gli inevitabili danni, ma una cosa deve essere chiara fin da subito. Servirà un’Italia diversa, più umile negli intenti, più formichina che cicala, più coraggiosa senza risultare spavalda. Poche cose, semplici ma fatte bene che, nel rugby, significa conquistarsi la pagnotta.
È stata una brutta serata, per tutti. Rialzarsi immediatamente, animati da una voglia feroce di mostrare di noi la migliore versione possibile, è un obbligo. L’unico che noi aficionados ci sentiamo di pretendere. Forza.

Teo Parini

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