Stasera Italrugby versus Nuova Zelanda: sursum corda, in alto i cuori ragazzi! Di Teo Parini

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Stretti a coorte, siam pronti alla morte

Una vittoria, l’Italia l’ha già ottenuta. È quella del rispetto che, nel gioco del rugby, se non vale quanto quella del campo poco ci manca. Perché? Semplice, i nostri avversari schiereranno contro gli azzurri la loro miglior formazione possibile, dentro tutti. Non ci temono ma, appunto, ci rispettano.
L’Everest del rugby ha un colore, il nero. Gli All Blacks neozelandesi incarnano nell’immaginario rugbistico la vetta della montagna, la tesi di laurea, l’unità di misura della competenza, lo spauracchio. Anche quando non sono i più forti di tutti – non succede spesso ma oggi è così – l’aura di maestosità che emanano dalla pelle è qualcosa di tangibile; quindici uomini stretti al centro del campo a fare la danza dei loro antenati maori, quella chiamata Haka che letteralmente significa accendere il respiro, sono il cromosomico manifesto di uno sport, parafrasando Woody Allen, da bestie praticato da uomini veri. Insomma, incutono un timore reverenziale che taglia le gambe.

Se, appunto, la danza che gli All Blacks inscenano nello spazio temporale che va dall’esecuzione degli inni nazionali al calcio di inizio gode di una fama ormai planetaria che si estende ben oltre i confini del rugby, in pochi conoscono la genesi di quella che, intanto, non è un inno alla guerra come spesso la di considera. “Ka mate Ka mate” fu, secondo leggenda, il pensiero che rimbalzò nella mente di Te Rauparaha, un famoso capo maori, quando per sfuggire alla ferocia del nemico ormai alle costole si nascose in fondo al pozzo del villaggio: io muoio, io muoio. Sostituito, una volta scampato il pericolo, da “Ka ora ka ora” urlato dalla felicità: io vivo, io vivo. “Ka mate” e ‘Ka ora” sono le principali parole che, occhi spiritati, denti serrati alternati alla lingua di fuori, il componente più anziano della squadra intona tirandosi dietro il sostegno non solo verbale dei compagni. Chi, in tutto ciò, intravede della sbruffoneria spicciola non ha capito nulla dello spirito maori perché eseguire l’Haka non è che il modo dei tutti neri di onorare l’avversario prima della battaglia. “Ka mate” che, nelle occasioni speciali, può diventare “Kapa”, la versione più aggressiva della danza, specificatamente ideata per essere dedicata alle gesta sportive quale identitario collante di un intero popolo che si nutre di maul e di touche. Rispetto dell’avversario e desiderio di annientarlo.
Questa sera, a distanza di una manciata di metri dagli All Blacks posizionati nell’epicentro del pianeta rugby, ci saranno gli azzurri e, indipendente da tutto, sarà un privilegio per la compagine italiana confrontarsi con il gotha della disciplina. Anche se potrebbe finire male tra valanghe di mete incassate, la classica imbarcata, e ossa più o meno metaforicamente rotte. Ma non è detto. Il contesto è ovviamente quello dei Mondiali in corso di svolgimento in Francia e allo scontro titanico ci arriviamo da primi in classifica di un girone, che a definire infernale gli si manca di rispetto, composto anche dai padroni di casa e da Uruguay e Namibia che abbiamo già avuto modo di sconfiggere. Siamo primi, affrontiamo gli All Blacks per rispedirli a casa e per scrivere una pagina di storia epocale. Euforia allo stato brado.

Realismo, anche. Se il tifoso in piena trance agonistica vede in Lamaro e compagni il grimaldello pronto a scassinare il sistema precostituito, quelli più bravi di noi nel leggere tra le pieghe degli eventi ci spiegano almeno un paio di concetti. Intanto, come si diceva poc’anzi, i neozelandesi, e non sempre in passato lo hanno fatto anche nelle occasioni nelle quali hanno poi asfaltato l’Italia, si presentano all’appuntamento con il piglio di una finale, bava alla bocca e sguardo iniettato di sangue. Hanno perso all’esordio con la Francia e vivacchiato con la Namibia e, pertanto, in patria hanno già digerito troppo per tollerare un’altra serata non altezza del simbolo d’argento che portano sul petto. In secondo luogo, c’è una questione di peculiarità reciproche. Il gioco arioso che sta dando più di qualche soddisfazione all’Italia, sulla carta mal si sposa con l’arrembaggio asfissiante dei tutti neri che potrebbero punire severamente lo spettacolare proposito azzurro di usare tutta la larghezza del campo. Un massacro? Da vedere. Perché, sempre gli esperti ci fanno notare lo scricchiolio strutturale esibito dai nostri avversari nei primi due match, i loro meccanismi di trasmissione dell’ovale non particolarmente oliati e che lo stato di gigantesca pressione alla quale saranno soggetti non è mai un buon compagno di viaggio anche per dei fenomeni come loro. In altre parole, l’Italia ha la possibilità concreta di restare aggrappata alla partita con le unghie, di non farsi travolgere già dalla prima ondata di marea e, con il trascorrere del tempo, di instillare qualche piccolo dubbio nella mente di avversari che, seppur forti, sono pur sempre uomini.

Kieran Crowley, di fatto, ripropone la formazione che ha sconfitto la Namibia. Rispetto alla vittoria contro l’Uruguay, invece, le principali novità sono costituite dallo spostamento di Capuozzo all’ala e di Allan all’estremo. Fuori i fratelli minori di casa Garbisi e Cannone, dentro Lumb a dare sostanza e Varney in mediana. Zuliani, il Lupin del rugby, ancora in panchina ma pronto a subentrare un corso d’opera per far valere una furbizia senza eguali nel momento topico dell’incontro. Senza volerci sostituire al nostro allenatore, un gigante, scelte comprensibili considerate le specificità dei neozelandesi. Più che di uomini, tutto il roster azzurro è ormai una garanzia di competenza, sarà questione di mentalità e predisposizione al sacrificio estremo. Servirà, innanzitutto, placcare anche l’aria, contendere alla morte ogni maledetto punto di incontro e avere una disciplina militare per limitare gli errori e cercare di costruire qualcosa di infinitamente grande. Non siamo qui a vedere tappeti: la migliore Italia da una decade a questa parte contro la (forse) peggior Nuova Zelanda degli ultimi cinquant’anni. Possibilità? Una su mille. Ma c’è.

Giusto per caricare ancor di più il nostro spirito, che già ribolle, ancoriamo la speranza al ricordo dei dieci minuti che ci garantirono la considerazione di un mondo, quello del rugby, che storicamente mal sopporta le intrusioni dall’esterno. 14 novembre, anno 2009, un gelido sabato pomeriggio. A San Siro, stipato come nelle migliori occasioni calcistiche, è, appunto, Italia contro Nuova Zelanda. Al minuto numero settanta il tabellone recita uno striminzito 20 a 6 per gli All Blacks con solo una meta a referto e il linguaggio del corpo dei nostri ragazzi che rivela un contagioso entusiasmo. l’Italia con caparbietà si guadagna una mischia all’interno dei ventidue metri avversari, il lato è quello destro per chi attacca. Tra il prato e il cielo, una bolgia infernale. La prima linea azzurra ingaggia e riserva ai pari ruolo una spazzolata che fa male, malissimo, frantumandone le certezze. Siamo dominanti nel fondamentale del gioco che è l’emblema della disciplina, tanto che per ben undici volte, un record, i nostri avversari inducono e non sempre in maniera corretta l’arbitro a far ripetere la mischia. Ci starebbe una meta tecnica grossa come l’orgoglio azzurro – per i meno avvezzi, uno smacco enorme per chi la subisce – che un direttore di gara accecato dal blasone dei nostri avversari non ci concederà. Ma il rugby, si sa, non risponde alle logiche di altri sport più egemonizzati dall’ossessione per il risultato e l’impotenza dei maestri neozelandesi nel contrastare la furia italiana ripaga con gli interessi anni di sacrifici e pane duro.

È l’Italia che spezza le catene.
29 settembre 2023. Alle ore 21, dalla stazione di Lione passa un treno con destinazione paradiso, una chance di gloria che ci siamo guadagnati. Provare a salirci sopra è un dovere, la nostra missione impossibile. Tuttavia, per dirla come il compianto Jonah Lomu – neozelandese non a caso il cui mito sta al rugby come quello di Maradona sta al soccer – “nothin’ is impossible”. Perché, nella vita, c’è sempre un Buster Douglas che può atterrare Mike Tyson. Incassato il rispetto dei più bravi è giunto il momento di far sentire la nostra abrasiva presenza. Testa alta, cuore in trincea, bicipiti d’acciaio e nessuna paura. Forza, ragazzi.

di Teo Parini

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