Quando a metà di un primo tempo fin lì piuttosto tranquillo il nostro gigantesco capitano, Michele Lamaro, compie una delle poche scelte sbagliate della sua vita rugbistica, forse l’unica, subendo un intercetto di quelli che (non ce ne voglia) si vedono sui campetti di provincia dando il via ai tre minuti più folli della recente storia italiana, fatti da due sacrosante espulsioni e una meta tecnica, la frittata azzurra sembra fatta.
Contro i Teros uruguagi, che in quanto a qualità e fisicità valgono la metà di noi, ci stiamo giocando la qualificazione diretta ai prossimi mondiali oltre che la possibilità di affrontare gli All Blacks tra una settimana da primi del girone per un sogno che si chiama quarti di finale. Hanno una buona rosa, anche se la panchina è un po’ corta, e un modo sparagnino e funzionale di stare in campo che gli consente di non vedere da troppo lontano le squadre migliori, basta chiedere alla Francia che per prevalere ha dovuto sudare le proverbiali sette camicie. Pertanto, sono la classica squadra che non si batte da sola e che se la contesa evolve in rissa da strada si esalta a dismisura. Sono anche più calcistici di noi, nel senso di scafati, e il loro continuo lagnarsi con l’arbitro ci tira dentro nel tranello: meno si gioca a rugby e più le loro chance di successo aumentano. La peggior notizia della giornata è che, nonostante vent’anni di Sei Nazioni e con le relativa esperienza maturata ad alto livello, ci caschiamo dentro con tutte le scarpe e i Teros all’intervallo ci vanno con dieci punti di vantaggio, che avrebbero pure potuto essere molti di più se solo il loro calciatore non avesse spedito in tribuna due trasformazioni tutt’altro che impossibili. Italia uguale disastro.
Qualche tempo fa, una situazione del genere ci avrebbe tagliato le gambe e sarebbe finita male, con tutto il movimento intento per l’ennesima volta a leccarsi ferite profondissime. Il rugby non fa sconti, non si vince di blasone ma di cuore, e in quel pantano, ne siamo certi, in mille altre occasioni saremmo sprofondati. Non ieri, perché quel che si verifica nel primo quarto d’ora della ripresa è uno spettacolo mai visto alle nostre latitudini. Crowley, l’allenatore, deve aver fatto tremare i muri dello spogliatoio perché al rientro in campo l’Italia confusionaria e spaesata, forse supponente, della prima frazione lascia spazio ad un quindici di una cattiveria agonistica tale da ricordare i giorni infuocati nei quali Mike Tyson si scagliava sull’avversario per spedirlo in tre minuti all’ospedale. Lamaro, incazzato come una belva per la stupidata commessa poc’anzi, e Lorenzo Cannone suonano la carica e in un amen dell’Uruguay sono macerie fumanti. Non solo furia agonistica, quella non potrebbe essere sufficiente, ma precisione nei fondamentali, disciplina ferrea, fosforo e velocità. Morale, è grande Italia che, in bilico sul cornicione, trova la sua miglior dimensione possibile. Un quarto d’ora, parafrasando la celebre locuzione per solito riservata all’orda nera neozelandese, di marea azzurra. Un’esibizione che, francamente, ci lascia di stucco tanta è la bellezza rugbistica profusa.
Messo rapidamente in cascina il punto di bonus grazie alla meta numero quattro, la partita sbriciolata dai nostri non ha più molto da dire e la girandola delle sostituzioni ci ricorda che tra otto giorni abbiamo il dovere di sfidare nelle condizioni fisiche più adatte e senza paura gli All Blacks. Perché non succederà, e qui la scaramanzia non c’entra, ma se dovesse succedere, insomma, ci siamo capiti. Difficile esprimere un giudizio complessivo sul match di ieri perché il valore dell’Italia non è certo quello tremebondo del primo tempo e, probabilmente, nemmeno quello stellare della ripresa. Detto con realismo, sta a metà con incoraggiante tendenza al secondo. In quanto a singoli, però, qualcosa la si può dire. Allan, rimesso in mediana, vive il momento più alto della sua carriera ed è la garanzia che si andava cercando da una vita in un ruolo chiave. Detto di Lamaro (designato man of the match) e dell’ariete Cannone, da sottolineare l’esordio incoraggiante con meta annessa di Pani, ala ventenne con centimetri e potenza nei quadricipiti destinato a crescere molto, la robustezza della prima linea titolare, l’inesausto lavoro sporco di Negri e del placcatore per eccellenza Brex, anch’esso in meta, e la verve dei due diamanti di famiglia, Capuozzo e Ioane. Eccellente, ma non è certo una novità, il subentrante Zuliani, rubapalloni per genetica da fare impallidire Lupin e i suoi furti, al confronto con l’azzurro, da principiante.
Siamo sinceri. Questa mattina fa un certo effetto, e che effetto, guardare la classifica del girone infernale nel quale siamo capitati che recita Italia dieci punti, Francia otto punti e Nuova Zelanda cinque punti. Ovvio, il bello (o il brutto) deve ancora venire ma vuoi mettere la serenità con la quale, da sfavoriti, potremo incrociare le traiettorie dei prossimi avversari? Aspiranti underdog, perché no? Una giornata storta può capitare a chiunque, il nostro dovere è quello di farci trovare pronti a raccogliere il seminato. Siamo ripetitivi, ma chi se ne importa: l’Italia che, ferita a morte, si ricompatta, fa quadrato e trova la forza interiore per annichilire fino a tramortire un avversario valoroso, pugnace e con tutta l’inerzia del mondo dalla sua parte – en passant, nel contesto di un mondiale – è gioia primordiale, esultanza allo stato brado. L’idea che ciò potesse succedere, poi, è uno dei due motivi, l’altro è l’amore incondizionato per una disciplina meravigliosa, che ci ha tenuti incollati alla tivù tutte quelle maledette volte nelle quali tutto sembrava da buttare via, consapevoli che, un giorno, il vento sarebbe cambiato.
Umiltà, ragazzi, perché siamo gente da rugby che ha fatto una fatica terribile per essere così com’è diventata oggi. Questa generazione, il cui acme deve ancora venire, scriverà pagine bellissime. In alto i bicchieri.
di Teo Parini