A Fabio Casartelli, al ciclismo e anche un po’ a noi.
Intorno al Col de Portet d’Aspet, valico situato a poco più di mille metri di quota nel dipartimento dell’Alta Garonna, regione Midi-Pirenei, spesso si è fatta la storia del ciclismo.
Leggenda ma anche dolore. Da quelle parti, infatti, nulla è mai banale e c’è sempre un caldo afoso. Manca l’aria ma la bicicletta è insita nei cromosomi della gente che pare non curarsene. Il nastro di asfalto appiccicoso e rovente scioglie i tubolari e l’incedere dei ciclisti sulla strada che si arrampica inesorabile sotto alle pedivelle ogni volta una é una mezza agonia. Le grandi imprese passano da qui, ecosistema inospitale per antonomasia, con tutta la fatica del mondo.
Anche ventisette estati fa faceva molto caldo. È il 18 luglio del 1995 e il gruppo che anima la Grand Boucle ha da poco imboccato la picchiata verso Ger-de-Boutx a velocità folle, come al solito. Davanti, in fuga, c’è il “Diablo” Chiappucci a fare il diavolo a quattro e non è certo una novità. Con lui, tra gli altri, anche Richard Virenque, l’idolo dei francesi nonché depositario della maglia a pois di miglior grimpeur, che finirà per vincere tra le polemiche la tappa che nessuno avrebbe voluto vedere. Mancano ancora un’infinità di chilometri al traguardo e i battistrada non sanno ovviamente nulla di ciò che da lì a breve sconvolgerà la corsa. Fanno quindi il loro lavoro: pedalano a tutta.
Dietro di loro, Rezze, un carneade, finisce lungo in una curva a sinistra. Con sé, trascina inesorabilmente califfi della bicicletta come Perini, Museeuw e Breukink – il Lupo del Gavia, per chi se lo ricorda – che finiscono nella scarpata. Indenni, ripartono in meno che non si dica, del resto sono tutti atleti indomiti e, nell’occasione, pure fortunati.
Perché Fabio Casartelli, venticinque anni all’anagrafe e una medaglia olimpica al collo che fa presagire un avvenire luminoso, cade invece rovinosamente e picchia con inaudita violenza la testa. Non indossa il casco, una consuetudine per l’epoca ma forse non sarebbe cambiato nulla, e un blocco di cemento di quelli che delimitano la carreggiata lungo le strade di montagna gli è fatale. Soccorso in una pozza di sangue, muore poco dopo in ospedale al culmine di due ore di agonia. A casa, ad attenderlo, la moglie Annalisa e il piccolo Marco, nato solo da pochi mesi. Purtroppo non lo rivedranno mai più.
In un periodo in cui le storie di sport fanno ancora rima con il servizio televisivo nazionale, a raccontare mirabilmente una giornata che ci ha segnato nel profondo – noi che il ciclismo è innanzitutto paradigma di vita – è Adriano De Zan, la voce per antonomasia dell’epica ciclistica. L’annuncio della tragedia, dato con il garbo e la sincera commozione di un vero fuoriclasse del microfono, è un momento di dolore impresso nella cultura sportiva del nostro Paese. Uno di quelli che hanno almeno il pregio di ricordare quanto sia volubile la vita per essere spesa tra futili pensieri.
Da quel giorno una stele in marmo bianco e grigio, adornata di fiori e biglietti adagiati da una moltitudine inesausta di tifosi e viandanti, è eretta proprio nel punto dell’incidente a imperitura memoria del ragazzo di Albese. Sulla strada maledetta il Tour de France ci torna spesso, è quasi un rituale non scritto. Perché il mondo del ciclismo avrà mille difetti ed è pieno di contraddizioni spesso poco simpatiche ma non dimentica mai chi ha contribuito con testa, cuore e gambe a renderlo uno sport meraviglioso.
Spingi sempre forte sui pedali, Fabio. Ovunque tu sia.
di Teo Parini