Attenzione: questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie.
Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.
Monaco di Baviera, all’epoca Germania Ovest, anno 1988. L’Olympiastadion è teatro dell’atto finale degli Europei di calcio, si gioca di pomeriggio, altri tempi. A contendersi il titolo sono le compagini di Olanda, un team stellare, e URSS che lo è quasi altrettanto. A rompere l’equilibrio del match ci pensa Ruud Gullit con una capocciata delle sue, dunque maestosa.
Lo chiamavano il Tulipano nero e la sua esuberanza atletica era qualcosa di abbacinante. Dopo mezz’ora di ostilità, quindi, è uno a zero per i ragazzi pilotati da quel diavolo di Rinus Michels, il padre del calcio totale.
Dei ventidue protagonisti di quel giorno, diversi giocano o finiranno per giocare in Italia, in un periodo nel quale il nostro campionato di serie A è ancora da considerare una spanna sopra la concorrenza e ciò dà perfettamente l’idea di quanto l’ultimo trentennio di vita malamente gestito, e non solo in ambito ludico, abbia ridisegnato le gerarchie globali del football oltre che della politica continentale.
Il minuto numero cinquantaquattro della finale è circolettato di rosso sui libri della memoria, uno spartiacque che sancisce la separazione tra un prima e un dopo che non sarà più lo stesso. Arnold Muhren, esperto centrocampista olandese con licenza di crossare, dalla trequarti di sinistra scodella verso l’area avversaria un pallone morbido carico di non troppe pretese. L’idea dietro al gesto è quella di cercare il palo più lontano per il taglio di un compagno incursore ma la traiettoria risulta più lunga che interessante, una palla alta che scende lenta e innocua dal cielo. Su quel fronte d’attacco, però, c’è proprio Marco Van Basten che si aggira come un felino, con i piedi che mulinano passi brevi alla velocità della luce alla ricerca della giusta coordinazione spazio-temporale.
1642599 001
Allineati reciprocamente intuito, occhi, postura del corpo e piede destro, in prossimità dell’area piccola ma in posizione assai defilata, Marco impatta la volée che trafigge senza appello Rinat Dasaev, en passant il miglior portiere dell’epoca, scrivendo di proprio pugno l’aggiornamento dei teoremi euclidei, quelli geometrici e incomprensibili. Gol, ma non ci crede nessuno.
“Ero un po’ stanco, la cosa più facile mi era parsa quella di calciare al volo”, dirà in una intervista qualche anno più tardi. Facile, quando in realtà fu difficile il solo pensiero che una siffatta soluzione balistica potesse avere un epilogo positivo. Per molti, la marcatura tecnicamente più complessa a memoria d’uomo.
Ventitré anni, Van Basten viene da una stagione travagliata che lo ha visto più spesso in infermeria che sui campi da gioco ma ciò non gli ha impedito di siglare, giusto al rientro nella primavera ormai avanzata, la rete che è valsa al primo Milan di Arrigo Sacchi una fetta consistente dello scudetto poi simbolo di una nuova era. All’Empoli, un tracciante dalla distanza, per chi se lo ricorda. Quello che la Storia celebrerà all’unisono come il più forte attaccante del calcio a colori, e che la sorte in collaborazione con i difensori irretiti di mezzo mondo metterà fuori gioco a neanche trenta primavere, a quell’Europeo ci arriva in sordina e invece finisce per esserne capocannoniere e stella polare: un vizio che Marco non avrebbe più perso.
Giocatore dalla tecnica sopraffina capace di condensare movenze da ballerino in quasi centonovanta centimetri di altezza, Van Basten appartiene all’élite di coloro che, più che averlo giocato, il calcio lo hanno sublimato. L’eccezionalità imperitura del personaggio, palesata a ogni pallone scagliato in rete, e furono molti, ha assunto proporzioni extra calcistiche, eterne, in una sera di fine estate, quando accadde qualcosa di surreale.
31 agosto 1995, stadio San Siro. Le caviglie malandate ormai da due anni gli impediscono di svolgere la professione per la quale il dio dello sport ne ha forgiato il corpo a sua immagine e somiglianza. Gli esperti di ogni latitudine cercano con fiducia via via decrescente una soluzione al problema medico ma davanti all’inspiegabile evenienza nefasta finiscono per arrendersi tutti: dottori, fisioterapisti, maghi, santoni, curatori e, financo, improbabili donatori di cartilagine, la sua kryptonite. C’è pertanto qualcosa di impossibile anche per chi proprio dell’impossibile – un gol in plastico volo d’angelo nell’inferno del Bernabeu, per esempio – ne ha fatto un esercizio routinario. È la scienza che, insensibile, appone i propri paletti senza guardare in faccia a nessuno.
Marco si presenta alla platea assiepata nella Scala milanese del calcio in borghese; indossa, infatti, dei jeans chiari e una giacca di renna sopra una camicia rosa infilata nei calzoni. L’outfit, che in senso generale conta sempre poco, nello specifico dice invece molto perché, proprio come sembra, è davvero tutto finito. Il Cigno di Utrecht, con un palmares debordante di allori incastonato alle spalle, entra nel prato che più di ogni altro al mondo ne è stato casa e palcoscenico. Solleva le mani, abbozza un sorriso, cammina lento, quasi a misurare passi ed energie. Di sicuro in quel frangente gli scorrono nella mente i fotogrammi di ciò che è stato, con l’orgoglio del campione ferito che, comunque, non lo può esentare dalla commozione. Marco è pur sempre uomo, speciale ma umano. I presenti scorgono la sua sagoma inconfondibile già dall’uscita del tunnel e schizzano in piedi con naturale sincronismo, all’unisono, come eterodiretti da un invisibile direttore d’orchestra. Hanno storie e provenienze diverse e una cosa non trascurabile li accomuna: piangono tutti. Per una volta, tifosi calciofili troppo spesso eccessivi riescono a non apparire fuori luogo.
Se è vero che lo sport come la vita, della quale è formidabile paradigma, sopravvive senza drammi all’alternanza naturale dei suoi illuminati protagonisti, è vero altresì che non è affatto scontato che chi farà seguito sappia risultare all’altezza di chi lo ha preceduto. La realtà è che nel caso di Van Basten, come per Tomba, Bernardi o Pantani, quindi campioni che per genetica lo sono un po’ più degli altri, ancora si sta aspettando la comparsa di un papabile erede. E mentre a calcio si continua ovviamente a giocare in ogni angolo del pianeta, è sul come la disciplina debba essere interpretata che ci si trova in difetto, con buona pace dei vari Messi e Ronaldo.
Marco, ovvero la compostezza classica di Nureyev che flirta con il fucile di Sidorenko, il cecchino di Stalingrado, e il pennello di Van Gogh – un essere mitologico chiamato Completezza – spegne oggi, da papà, allenatore e golfista provetto, cinquantasette candeline. Sembra ieri ma dall’ultimo gol sono quasi passate tre decadi. Ricorrenza che, piace pensare non sia frutto del caso, segue di sole ventiquattro ore quella che avrebbe regalato il compleanno numero sessantuno a Diego Armando Maradona, il più grande di ogni epoca, hors catégorie della disciplina, voce degli ultimi e amico dei popoli, che, disquisendo proprio di Van Basten, disse “il giocatore più elegante mai visto”. Una incoronazione scolpita nelle pieghe del tempo.
Leggenda vuole che la caviglia fragile e subdola che ne ha dettato i ritmi della carriera fosse affetta da un difetto congenito, come parte di un copione già scritto, bello e maledetto. È proprio vero, la perfezione non esiste.
Tanti auguri, Marco, eroe senza confini di un calcio che ci è davvero tanto piaciuto.
Teo Parini
Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.