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Viaggio nella Cuba odierna, dove vita fa ancora rima con Rivoluzione (anzi, revolucion)- di Teo Parini

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Il nostro Teo Parini è stato recentemente a Cuba, scrivendo per noi un interessante reportage (decisamente fuori dagli schemi ed appassionato). Buona lettura. Le foto che alleghiamo sono state realizzate da lui durante il viaggio.

 

L’AVANA (Cuba) – Per noi italiani, che una Rivoluzione oltre a non averla mai vissuta nemmeno siamo capaci di sognarla, è consueta una certa diffidenza nei confronti della simbiosi viscerale tutta cubana che intercorre tra la popolazione e i protagonisti del passato recente della nazione: un tutt’uno. Quelli che la nostra informazione mainstream, prezzolata in diversa misura da Washington e sodali, chiama dittatori, dall’Avana a Santiago, passando per Santa Clara, Trinidad e Cienfuegos, sono invece gli eroi della gente comune che non dimentica il cammino glorioso intrapreso da chi è venuto prima. Sull’isola ribelle, la cui vita si articola tra le pieghe di difficoltà variegate ma insormontabili solo per chi osserva da fuori, Rivoluzione è infatti quotidianità che significa appartenenza, dignità che è benzina per lo spirito, motivo di rivalsa nei confronti di chi, inerte, il proprio destino non lo prende per le corna. “Patria o morte”, eredità solida tramandata dal sacrificio dei Barbudos liberatori, è pertanto sublimazione del concetto di sovranismo che, se il mondo occidentale fa coincidere a fini denigratori e opportunistici con l’attitudine sciovinista degenerante in bramosia di dominio, continua gioiosamente a trovare a Cuba la sua più consona accezione. Per dirla alla maniera di De Gaulle, quindi, sinonimo di amore per la nazione in antitesi all’odio per quelle altrui. Intorno a questo patrimonio culturale il cittadino edifica e difende la propria inviolabile indole cubana: più che un eccesso, un’esigenza fisica. Come il ballo.

Siamo soliti, noi che stazioniamo nell’emisfero politicamente corrotto del profitto, a considerare esecrabile tutto ciò che non riusciamo a possedere con la forza, che sia questa del danaro o delle bombe. Cuba, libera e patriottica, rientra nei desiderata occidentali, tuttavia da più di mezzo secolo incarna il granello di sabbia nell’ingranaggio dei fautori dell’universo unipolare mercificato e del partito unico della finanza che soggioga politica e società al principio edonistico. Perché la minuscola Cuba, risorta dalla degenerazione morale che ne fece il bordello a cielo aperto degli USA e che oggi esporta dottori ovunque ne sussista la necessità, è riuscita laddove altri nella migliore delle ipotesi hanno fallito, dimostrando che un modello di vita differente da quello capitalistico è ancora possibile. Uno smacco alle ambizioni imperiali che si aggirano come avvoltoi sui paesi dell’America Latina, sull’ALBA – l’alleanza – che nel mito di Simon Bolivar non china il capo.
Cuba, resiliente e propositiva, ha così tracciato una via che difende pagando un prezzo salato alla coerenza delle proprie idee: si scrive embargo, si legge genocidio. Somma di un vuoto fisico, quello delle dispense casalinghe, degli scaffali nei bazar e delle farmacie, e di uno psicologico, cioè destabilizzazione e incertezza. Se autodeterminarsi ricollocando l’uomo al centro dell’esistenza è stato possibile, il capolavoro sociale è quello di essere rivoluzionari ogni giorno, anche nel secolo ventuno intriso di lassismo e anestetizzante tecnologia. In ogni ambito, dalla scuola in poi, un processo culturale inesauribile che passa attraverso le fasi di sviluppo della persona e che trova nei dettami di una società edificata a misura d’uomo eticità, uguaglianza e senso di giustizia. Meno possesso e più condivisione; meno esclusività e più inclusività. Succede davvero, anche se chi vive la dinamica dell’esibizionismo compulsivo fatica ad ammetterlo.
Cuba è per desossiribonucleico apertura e fratellanza – perché internazionalista – ma non è ingenua. Se presa in giro digrigna i denti, ringhia, tende una mano ma non porge l’altra guancia. Non è pacifista ma per la pace. Perché l’aria festaiola che inonda le strade giorno e notte e la propensione nell’elevare a danza armoniosa la routine che in altri luoghi imbruttisce l’uomo non deve ingannare. La corazza a protezione del noto principio del buen vivir è coriacea in quanto tutela di un bene imprescindibile. Noi esistiamo, loro vivono. E sorridono. Frenetici come siamo, noi cultori dell’effimero in assenza del necessario, abbiamo da tempo disimparato un esercizio portentoso – ridere – che è cartina al tornasole della qualità del nostro tempo. Infima, nonostante il surplus di cui ossessivamente proviamo a dotarci per colmare il vuoto che l’habitat plastificato in cui tutto ha un costo ci genera dentro.
Per decenni i rotocalchi padronali di mezzo mondo, Italia in prima fila, hanno divulgato la menzogna del despota sanguinario, Fidel Castro, del quale il popolo vessato e impoverito non vedeva l’ora di sbarazzarsene, tanto che molti, diciamo distratti, hanno finito per crederci. Successe invece che, commossi e grati, i cubani scesero a milioni nelle strade nel giorno del funerale per l’ultimo saluto al Comandante en Jefe, non certo perché ricompensati o minacciati. La Cuba che alle angherie straniere risponde con orgoglio e risolutezza si ritrovò così a fare quadrato intorno alla memoria del leader scoprendosi ancora più coesa. E mentre nella comodità dei lussuosi attici di Miami gli esuli traditori festeggiavano la scomparsa di colui che, cacciandoli, ripulì l’isola dai cancerogeni vizi occidentali, i cubani rinverdivano lo spirito rivoluzionario. Se oggi la scritta ‘Viva Fidel’ continua a campeggiare sulle facciate dei palazzi è perché Rivoluzione è il trofeo imperituro di chi è nato e morirà libero. Fa sorridere come da sessant’anni e più i suoi detrattori ne celebrino l’imminente implosione, sbagliando miseramente ogni volta. Perché, livorosi e aridi, si ostinano a confondere sentimento e imposizione: tanto del primo, poco o nulla della seconda. Questione di cuore.
Cuba isola felice, a scanso di equivoci, non è comunque il Paradiso in Terra, intanto perché un posto simile semplicemente non esiste. Ci sono i principi, quelli per i quali si è disposti a rinunciare ai facili egoismi e poi ci sono gli uomini. Alcuni virtuosi, altri meno; alcuni esaltano con l’operato le idee più valide, altri purtroppo le vanificano. Ovunque. Cuba socialista, l’unico paese al mondo che assicura istruzione, alloggio e sanità di qualità a chiunque, sta affrontando un particolare momento di transizione. Non è il primo, e non sarà l’ultimo, ma ha una peculiarità non secondaria in quanto pilotato da un uomo, Diaz-Canel, nato solo dopo la cacciata di Fulgencio Batista. Un Presidente post-rivoluzione, non appartenente alla famiglia Castro, a cui per motivi anagrafici viene anche a mancare la memoria storica e la spinta propulsiva di coloro che non esitarono a imbracciare un fucile. Un compito direttivo, il suo, se possibile ancora più difficile, dove alla consueta ferocia perpetrata dal nemico di sempre, gli Stati Uniti, si aggiunge l’inevitabile effetto collaterale del progresso tecnologico, un’arma a doppio taglio, che contraendo tempi e distanze amplifica il richiamo del cliché occidentale, quello ammaliante fuori e imputridito dentro. Urgono perciò anticorpi sociali sempre aggiornati che passano per la cultura, e non è certo un caso se in controtendenza mondiale a Cuba si incentiva lo studio mentre altrove le classi dominanti lo osteggiano senza ritegno. Perché un popolo istruito, parafrasando Josè Martì, sarà sempre forte e libero.
Le note dolenti, ma assi meno dolenti se commisurate ai Paesi limitrofi e dunque razionalmente paragonabili, riguardano la corruzione, che è presente, il mercato parallelo, idem, e l’occupazione lavorativa. A tal riguardo a Cuba, e non è certo un mistero, è possibile condurre una vita dignitosa anche senza una professione, ciò grazie al sostegno statale, e non è detto sia tout court una buona notizia, in ispecie senza uno sviluppato e maturo senso civico. La cura del patrimonio comune, spesso di valore inestimabile, o la cautela nel consumo di beni energetici, gratuiti benché rari, sono pratiche decisamente perfettibili e talvolta tra le nuove leve si legano all’idea insana che tutto sia sempre dovuto. Dimenticando che socialismo e assistenzialismo non sono la stessa cosa. Così, su questo tarlo, è nata una generazione di trafficanti inoperosi prima sconosciuta, dedita alle piccole truffe a danno dei turisti. Si chiamano jineteros, li vedi appollaiati agli angoli delle strade con le orecchie drizzate in attesa di uno straniero a cui proporre le più bizzarre forme di agevolazione per il soggiorno. Tutto fa brodo per spillare qualche moneta di troppo all’avventore, anche se per la verità è più furbizia che cattiveria. In ogni caso, un discreto grattacapo per il governo che ha proprio nel turismo e nella relativa accoglienza onesta e calorosa una forma di economia vitale strettamente necessaria, la cui immagine rischia di essere danneggiata.
La perfezione, per dirla alla William Maugham, ha un grave difetto: è noiosa. E anche a Cuba, come in ogni società costruita dall’uomo, non ci si annoia in preda all’imperfezione. Millantare il contrario è fanatismo, quindi controproducente. Tuttavia, nonostante questi e altri problemi strutturali intrinseci – nella lista anche quello relativo alla piccola imprenditoria privata divenuta rapidamente foriera di disuguaglianza sociale – Cuba si conferma tra i paesi più sicuri per vivere. Nulla da spartire con i restanti governi dell’area latina, dove la criminalità, oltre che l’alfabetizzazione, è una piaga irrisolta. Statistiche alla mano, in Honduras si uccide venti volte più che a Cuba, dieci volte tanto in Guatemala e Giamaica. Inoltre, se è vero che nel mondo ogni minuto cinque bambini muoiono di fame è facile riscontrare che nessuno di essi è cubano, con buona pace dei media mainstream allineati nella criminogena mistificazione della realtà.
Di più. Grazie proprio all’internazionalismo di stato, che spedisce uomini e risorse negli scenari più disastrati, che sia per guerra, calamità o altro, questa poco edificante vergogna mondiale riguardante l’infanzia trova una lieve ma significativa inversione di tendenza, nonostante l’embargo pluridecennale giustificherebbe inclinazioni sparagnine financo egoistiche che esulano dalla cifra stilistica del popolo di Cuba. Vige, e non solo a parole, il noto principio marxista: da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i propri bisogni. Sempre.
In chiusura è opportuno tornare a sottolineare che la Cuba dell’uguaglianza, della coesistenza pacifica di culture e tradizioni differenti, del meticciato che è arricchimento e dell’altruismo che non lascia nessuno indietro, è, prima di ogni altra cosa, l’attestazione inconfutabile che un sistema di vita alternativo a quello che siamo abituati a considerare inevitabile esiste. Un sentiero impervio e faticoso, poiché osteggiato, ma sempre percorribile. Intraprenderlo è antidoto all’alienazione dell’uomo-oggetto, che nasce, consuma, crepa e non vive. La solidarietà, che sempre per Josè Martì rappresenta la tenerezza dei popoli, e, appunto, la tenerezza, che per Ernesto Guevara deve essere preservata anche quando serve essere duri, sono l’epicentro di un modello di convivenza civile eretto su un pensiero accomunante che odora di libertà. Ovvero, la prevaricazione capitalistica dell’uomo sull’uomo, diretta conseguenza della concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, non è mai la naturalità degli eventi bensì una scelta precisa. Sciagurata, viene da dire osservando il baratro etico esplorato oggi dall’Occidente, al punto che i Barbudos la rifuggirono con ogni mezzo, finendo per elevare la propria esperienza di rivoluzionari a speranza concreta per tutti i popoli in cerca di autodeterminazione.
In un mondo seviziato da una sola voce egemonica, nel quale il ribaltamento orwelliano del concetto imposto di libertà detta l’agenda, che la Cuba caleidoscopica e capace di far degli ostacoli il fertilizzante del futuro ci possa servire da lezione.
Teo Parini

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