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#Brexit: senza accordo cosa succede?

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Tutto è cominciato il 23 giugno del 2016 quando i cittadini del Regno Unito hanno votato a favore dell’uscita (Brexit) dall’Unione Europea (51,9%).

Da quel momento è partito il processo di contrattazione che porterà il Regno Unito (Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda del Nord) ad uscire formalmente dall’Ue il 29 marzo 2019 alle ore 23 (orario di Greenwich, naturalmente). Vista la portata dell’evento e le sue ripercussioni economiche e sociali, ci sarà un periodo di transizione che lascerà tutto invariato sino al 31 dicembre del 2020.

 

 

 

 

 

 

 

Annichilito dalle lotte intestine, il Parlamento di Westminster ha rigettato martedì a stragrande maggioranza l’accordo raggiunto faticosamente dal governo May dopo un negoziato con l’Ue lungo 18 mesi. Un accordo che i leader europei considerano l’unico possibile, non solo perché Bruxelles e i 27 non intendono cedere su alcuni punti dirimenti, ma anche perché mancherebbe il tempo utile per un nuovo rinegoziato.

La situazione inglese è pertanto preoccupante perché non c’è di fatto un piano alternativo: non c’è una maggioranza né per rimanere nell’Ue né per uscirne ad ogni costo senza alcun paracadute. Un secondo referendum non è fattibile perché finirebbe per rinfocolare i contrasti e renderli irreversibili.

Secondo quindi gli analisti, il mancato accordo porterà più probabilmente all’uscita del Regno Unito in maniera disordinata, senza un accordo oppure con un accordo al ribasso, che non salvaguardi l’accesso del Regno Unito al libero scambio di beni e servizi con gli altri paesi europei: uno scenario chiamato appunto “hard Brexit”. Se ciò dovesse effettivamente accadere, le conseguenze sarebbero gravi, soprattutto per il settore finanziario, data la rilevanza della piazza di Londra per il settore finanziario europeo.  Una di queste conseguenze è proprio che la “hard Brexit” inneschi una lunga serie di trattative bilaterali con i singoli governi europei, al fine di salvaguardare le prestazioni dei servizi finanziari.

Cosa rischia l’Italia? A confronto con gli altri grandi paesi Ue, l’Italia sembrerebbe meno esposta al rischio “hard Brexit”, ma non è propriamente così. L’Italia conta poco più del 5% delle esportazioni verso il Regno Unito ma possiede anche il terzo maggiore surplus commerciale europeo nei confronti di Londra (12 miliardi di euro l’anno), che riguarda i settori di punta del made in Italy: la meccanica strumentale, il tessile, il chimico e l’agroalimentare.

Dal punto di vista degli investimenti, l’economia italiana è uno dei meno “internazionalizzati” tra le economie sviluppate, questo la renderebbe in parte immune dal rischio “hard brexit”. Il nostro paese conta una quota di investimenti diretti esteri equivalente al 19% del PIL nel 2016 rispetto alla media Ue che supera il 45%. Anche in questo caso bisogna tenere d’occhio gli investimenti britannici localizzati nel Nord Italia, e in Lombardia in particolare, che potrebbero subire un effetto consistente a livello locale.

Un altro rischio da non sottovalutare è il possibile “effetto contagio”: lo spread tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi è infatti già molto alto e lo spread italiano si è più volte spostato verso l’alto durante le crisi collegate alla contrattazione della Brexit. Questo effetto dimostra che qualsiasi elemento di instabilità all’interno dell’Ue si ripercuote immediatamente nel nostro Paese a causa dell’elevato debito pubblico e dipendenza dai mercati finanziari.

Quali saranno le prossime mosse della premier Theresa May? Riuscirà a trovare un compromesso all’interno del suo stesso partito e tra le forze politiche parlamentari, oppure sceglierà la strada delle dimissioni? E poi, quali saranno invece le mosse di Bruxelles?

“La vita è troppo breve per diventare un esperto dell’Ue. Per questo servono i politici.” Così Simon Kuper sul Financial Times del 10 gennaio. Davanti a questo scenario la classe dirigente britannica è chiamata a una grande responsabilità, perché non si può lasciare adesso la Brexit sola a se stessa. Il tempo rimasto è troppo breve per fare i giuristi e gli economisti. Ci vuole una classe dirigente che si prenda seriamente le proprie responsabilità perché quello che viene deciso ha risvolti in tutta Europa non solo nel Regno unito.

E poi c’è l’Unione Europea che comincia non proprio bene l’anno nuovo. L’anno delle elezioni europee. L’anno che metterà seriamente in discussione su cosa si basa il progetto europeo, cosa i cittadini europei si aspettano veramente dalle istituzioni europee. E per questo non ci vogliono analisti, giuristi o economisti ma veri politici.

 

(*Fonte: Politico.eu; Ispi)

Mariarosa Cuciniello

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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