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Dall'archivio:

Abbiategrasso: il Giango muore alla vigilia di Pasqua. Ed è tutto così tetro. L’uomo, e l’amico, vede ma non comprende- di F.P.

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“L’amicizia? Sono come dei  solitari insieme”. Per Abel Bonnard questo sentimento è aristocratico. Se tutti si innamorano, se molti si alleano, pochi diventano amici
ABBIATEGRASSO Questa mattina, dopo che il gelido sibilo dei messaggi volgeva tetro verso le stesse, agghiaccianti parole vergate sullo smartphone (‘il Giango è morto..’), sono stato nella chiesa del mio paese, a pochi passi da casa.

C’era Cristo in croce, al centro della navata, davanti l’altare, col tabernacolo vuoto in attesa della Pasqua di Risurrezione,  a poche ore dalla liturgia che celebra la morte del Figlio di Dio. E allora mi son chiesto quant’è dura chiedere- a chi nutre e ‘si’ nutre di Fede in quel Cristo crocifisso che ha vinto la morte- di recitare il Padre Nostro e volgere al Cielo parole come ‘fiat voluntas tua’. Sia fatta la tua volontà. E quale volontà?

Forse quella di assistere, impotenti e silenziosi, alla morte di un giovane uomo di 48 anni, figlio, marito e padre di due bambini, senza poter opporre nulla se non l’accorata preghiera?

Una morte, quella di Loris Gianella da Biegrass, per tutti gli amici universalmente noto come Giango (uno di quei nick name che ti si stampano come colla inscalfibile), giunta peraltro non come disgrazia improvvisa, ma come fine di un calvario ben più lungo di 40 giorni o dell’ascesa dolorosa al Golgota.

Il Giango, cresciuto assieme agli amici di sempre e per sempre nelle file della ‘militanza’ in oratorio, assieme ai figli delle famiglie che assieme ai propri genitori avevano tenuto ben salda la vicinanza a quel cristianesimo fatto di poche parole e tanti gesti di straordinaria, silenziosa generosità, ha chiuso la sua vita terrena alla vigilia del giorno in cui il popolo cristiano è chiamato a vivere la Risurrezione. Morte, vita, risurrezione. Sono parole così proverbialmente lontane tra loro, perché neppure la più salda tra le adesioni ai Misteri del Cristianesimo può impedirci di assistere allo strazio di un padre chiamato a seppellire un figlio, di una moglie che piange un marito, di due bambini neppure ragazzi che piangono un padre. Mamma Maria ha preceduto il suo unico figlio in quella Vita ultraterrena di cui si nutre, come autentica promessa di Eternità, quella Fede che sola rappresenta l’appiglio in momenti come questi.

Ma ci perdonerete tutti, e ci perdonerai tu Giango, se questa morte così insensata  ci porta o riporta a calcare le scene non del parquet, che hai calpestato per anni da amante (come me) della pallacanestro, ma dell’amicizia.

Sai che c’è? C’è che quella cavolo di finta di tiro e penetrazione con la mano sinistra, ancora oggi mi fa saltare come una trota! Come mi facevi incazzare, con il tuo sorrisino che diceva : “te l’ho fatta ancora”!!!! C’è che non sei stato solo di passaggio, ma quello che hai lasciato, che mi hai lasciato è stato veramente tanto, tantissimo,  ha scritto oggi su Facebook Matteo Bollini. Al pari della risposta abbiatense a Kurt Rambis, ossia Fabio Ramaioli, “Scarico in angolo per Giango; schema fisso per la mezzaluna con terzo tempo con gancetto di sinistro; pressione tutto campo Giango indirizzalo…”. Dall’oratorio a confrontarsi su tutto a quei magnifici momenti sul campo di basket…sempre disponibile e aperto”.

Loro come gli altri cultori della palla a spicchi, da Matteo Nobili a Pippo De Tomasi, che collezionò formidabili prestazioni unite a proverbiali e burrascose espulsioni.

Le strade nostre e del Giango si erano incrociate più di 20 anni fa, in una portentosa fusione tra il robusto gruppo degli abbiatensi- Cranio, Sarti, Pete, Bobo- e noi scavezzacollo di Robecco.

Un effigie.. di Tupamaros

Da questa ‘corresponsione di amorosi sensi’ scaturirono serate al confine tra mito e realtà. Osteria Santa Maria 1998, un anonimo martedì sera di fine maggio (o inizio giugno), quando il tepore estivo s’avvicina e si può indulgere sul lato.. birra. Dopo la partita di calcetto al torneo di Bià (credo che la squadra si chiamasse Gli Orfani del Cranio) io chiesi alla mia banda di Tupamaros da bancone di ordinarmi un succo di pera: s’era tutti, appunto, al Lupo, il locale del quarilatero adiacente la gloriosa sede della fu Banca Popolare dove erano adusi a ritrovarsi giovani abbiatensi (e non solo).  Tornato dal cesso, vidi il succo di pera a fianco di un litro (di spremuta.. al luppolo).

Ne scaturì una serata da tregenda, con 5 maschi dei  7 presenti a quel tavolo costretti a marcar visita dal lavoro il giorno dopo. Uno era già all’epoca avvinto dal mantra ‘bisogna trovare il tempo per lavorare’, e se la cavò solo con un vigoroso mal di testa..

Al bar Castello di Pier Strazzeri e Stefano Guaita il bellissimo mobile in legno che oggi contiene centinaia di grandi bocce di vino non esisteva, alle origini. E’ arrivato dopo che negli anni 2001-2006 i tupamaros di cui sopra battevano record di assunzione… di champagne, coi cui proventi i gestori del Castello comprarono quel mobile (e molto altro assai…).

Dal Gallo abbiamo dato spettacolo per anni, in una sorta di riedizione del circo Barnum dove soprattutto i sabati sera, dall’aperitivo finché qualcuno issava bandiera bianca e se ne scappava con la testa crepata dall’overbooking (alcolico), ogni tavolo vedeva riunita una compagnia. Leggendaria l’estate in cui c’appassionammo al Campari con l’aranciata, tanto che il Gallo ideò dei vasconi contenenti un numero di bottigliette (di Campari e aranciate..) su cui stendiamo un velo di silenzioso oblio..

Il Giango l’eva un fioeu d’uratori, ricordo le serate trascorse sui gradoni della palestra a vederli giocare a calcetto, il Bobo fasciato in una maglia giallo canarino- abbagliante evidentemente sottratta a qualche operaio dell’Anas. Epica come la ‘biella’ di pasta (ad occhio, tra 500 e 700 grammi) che il Matteo Cucchi- a notte inoltrata, nel mezzo di un addio al celibato su cui si potrebbe scrivere un’Odissea- si spazzò in pochi minuti (dopo dolce, caffè e ammazzacaffè…) nel retro sulfureo di un locale a Remondò, una cinquantina scarse di anime dalle parti della Lomellina, che quella notte si trasformò in una sorta di Las Vegas, con annessi e connessi (………)

Oratorio, bar dell’oratorio, campeggio, lo spogliatoio frutto degli anni trascorsi a giocare, l’azienda di famiglia, gli amici: la vita del Giango era intrisa di un’appassionata generosità, della capacità- innata, se ami lo sport e le sue regole- di fare gruppo in un amen.

Indimenticabili le Notti magiche dei mondiali 2006, vissute nel suo giardino, grigliata dopo grigliata, birra dopo birra, gol di Del Piero e si vola a Berlino, vittoria con la Francia e carosello in piazza sul camion (qualcuno aveva ecceduto col limoncello e si addormentà tra ali di folla urlanti.. un’impresa da Guinness).

Perché il Giango, scusarin tra i più improbabili, birra ghiacciata da 66 per le fasi preparatorie (per arginare il caldo causato dalla fiamma che ardeva per cucinare la salamella), era mastro grigliatore, superbo nell’accogliere, entusiasta nello e dello stare insieme.

L’amicizia non è mai soltanto rose e fiori, dacché vive di sconfinate parentesi insieme e poi di subitanei abbandoni. E così anche a noi, come tanti o forse come tutti (ma io non mi ci rassegnerò mai, a giudicarlo il peggior reato che un uomo possa commettere), ci si era persi di vista.

Siamo invecchiati (senza diventare adulti, va da sè..) lasciando che le vicende di ciascuno portassero tutti un po’ più lontani. Che cazzata…

Il Giango negli anni s’era appassionato alle due ruote divenendo un pasdaran di Andrea Noè e dei Brontolo Biker(rs).

Dai primordi della malatta alla mattina di sabato, il bollettino periodico al telefono per sincerarsi delle sue condizioni era la prassi tristemente consolidata che aveva esaurito in poco tempo il vocabolario delle parole senza senso.

Ho sempre mostrato malcelata invidia, ma più che altro sincera ammirazione, per la sua capacità di stare a fianco della stessa ragazza, la sua eterna Loredana, per un numero di anni incalcolabile quanto gli Champagne del Castello o i Campari del Gallo.

E’ per questa ragione che nel cuore sonnolento di  molte notti, e molti anni e molte sere, rincasando da Milano o Abbiategrasso per dirigermi a casa passavo da Cascinazza suonando vigorosamente il clacson alle ore più improbabili, sorridendo come un pazzo al pensiero che mi sentisse (‘a l’è sicurament cal pirla dal Provera..ta sinta no?’).

Una sera, nel periodo in cui una generosa ragazza di Vigevano concedeva le sue grazie, dissi ‘andiamo a fare l’amore nel campo a fianco della casa del Giango, che se dalla finestra dovesse vedere la mia macchina in lontananza sono sicuro che scuoterà la testa, sorridendo e richiudendo le persiane..’

Era un esercizio di ben più grande mestizia passare da Cascinazza negli ultimi tempi, dacché ho smesso di clacsonare perché non eri più lì per sentirmi, ma su un letto d’ospedale.

Che figlia di puttana, spesso e volentieri, si rivela la vita.

Sarà che persino le tre icone cinematrografiche dell’amicizia che si fa Carne trasposta nel cinema- Matt, Jack e Leroy ne Un mercoledì da leoni di John Milius- si perdono di vista salvo poi ritrovarsi nell’ultima parte del film che hanno res iconico per cavalcare nuovamente le onde del mare, però il dolore senza requie della morte s’unisce al pensiero del tempo che abbiamo trascorso lontani.

Ché sono sicuro daremmo tutti ogni centesimo rimanente dei nostri patrimoni, piccoli o grandi che siano, per rivivere le serate di domenica in cui ci bastava una Tarci 87, una Faxe da litro (o più d’uno…) e una meneghina al Grand Marnier  della Bauli (‘chez’ Terrone) per toccare il cielo con un dito e sentirci dei novelli gagà, padroni del mondo o comunque del nostro (piccolo) mondo.

Si nutre anche di grandi silenzi, e variabili gradi di separazione, l’amicizia.

Di certo, Giango, quella che abbiamo vissuto ha dato senso, sapore e una consistenza così forte alle nostre vite che senza di essa saremmo stati dannatamente in miseria.

E invece quei giorni, quegli anni, ci sono stati. Eccome. E adesso- benché si sia nel pieno della fase in cui l’uomo s’interroga davanti alla Croce, perché vede ma non comprende- possiamo soltanto stringerci in un abbraccio a chi hai dovuto lasciare così dolorosamente.

Colmi di tristezza, di rabbia, di dolore. E di rimpianto per tutti quei momenti passati lontano. Che hanno un’unica, grande e proverbiale potenzialità: farci rammentare, in un istante e nel pertugio memoriale d’un ricordo che si fa sorriso, quanto ci abbiano segnato- e riempiti di gioia- quelli trascorsi insieme.

Requiem aeternam dona ei, Domine. A buon rivederci, Giango.

F.P.

 

Avevano parlano a lungo
Di passione e spiritualità
E avevano toccato il fondo
Della loro provvisorietà
Lei disse:
“Sta arrivando il giorno
Chiudi la finestra
O il mattino ci scoprirà”
E lui sentì crollare il mondo
Sentì che il tempo gli remava contro
Schiacciò la testa sul cuscino
Per non sentire il rumore di fondo della città
Una tempesta d’estate
Lascia sabbia e calore
E pezzi di conversazione nell’aria
E ancora voglia d’amore
Lei chiese la parola d’ordine
Il codice d’ingresso al suo dolore
Lui disse:
“Non adesso
Ne abbiamo già discusso troppo spesso
Aiutami piuttosto a far presto
Il mio volo partirà tra poco più di due ore”
Sentì suonare il telefono nella stanza gelata
E si svegliò di colpo e capì
Di averla solo sognata
Si domandò con chi fosse e pensò:
“E’ acqua passata”
E smise di cercare risposte
Sentì che gli arrivava la tosse
Si alzò per aprire le imposte
Ma fuori la notte sembrava appena iniziata
Due buoni compagni di viaggio
Non dovrebbero lasciarsi mai
Potranno scegliere imbarchi diversi
Saranno sempre due marinai
Lei disse misteriosamente:
“Sarà sempre tardi per me
Quando ritornerai”
E lui buttò un soldino nel mare
Lei lo guardò galleggiare
Si dissero ciao per le scale
E la luce dell’alba da fuori
Sembrò evaporare

 

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