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Addio a Del Potro, il martello di Tandil, e alla sua personale ricerca ‘della verde Milonga’- di Teo Parini

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Le sfortune nella vita sono altre, ma nel suo lato sportivo Juan Martin del Potro ha maturato un credito con la sorte che ha pochi eguali. E così, a valle di quello che potrebbe essere stato l’ultimo incontro, ci ha fatto sapere che il suo calvario ha inesorabilmente vinto la guerra.
Troppo dolore per quel ginocchio operato almeno quattro volte nel biennio alle spalle e mai davvero guarito nonostante l’alternarsi dei più prestigiosi bisturi del pianeta. Ma se oggi è il ginocchio l’epicentro del malessere fisico, ieri era il polso. Anzi i polsi, martoriati e ricostruiti entrambi, causa di continue interruzioni di carriera e di sfiancanti scalate per risalire la china. Sembra un ossimoro. Un gigante che solo a guardarlo ispira indistruttibilità e che invece all’acciaio ha anteposto il cristallo. Più fragilità che tenacità, quindi, e forse è anche per questo che si fatica a non volergli bene.

Dopo l’ultimo pit-stop in sala operatoria, Juan Martin ha perso in poche settimane qualcosa come tredici chili tanto che tornare a imbracciare la racchetta deve essergli sembrato un esercizio ancora più pesante del consueto, al punto che se alle porte non ci fosse stato il torneo di casa, da dove mancava ormai da anni, si sarebbe forse risparmiato l’ennesima faticaccia in palestra per riprendersi il palcoscenico.
Ma si sa, gli argentini hanno la garra intagliata nei cromosomi e l’idea di salutare i tifosi proprio dove tutto è cominciato deve averlo spinto a rialzarsi anche questa volta. E poi ci sarebbe stata mamma sugli spalti, che dal vivo non lo aveva mai visto competere.
A ripercorrere a ritroso la sua carriera ci si rende conto di quanto nello sport non si debba dare mai nulla per scontato e, soprattutto, di quanto sia arduo – spesso con superficialità ce lo si dimentica – rimanere ai vertici di una disciplina così esigente. Talento purissimo, capace di fare coesistere raffinatezza e forza bruta, del Potro ha edificato una carriera infinitamente meno ricca di quanto tre lustri fa avremmo pronosticato per lui. Quando, poco più che ventenne, sbancò New York prendendosi lo scalpo dell’allora quasi invincibile Federer. Era il 2009 e, pare impossibile, ma l’affermazione nello Slam nordamericano resta tuttora l’ultima di un giocatore non europeo in un Major.
Le statistiche lasciano spesso il tempo che trovano, tuttavia una descrive bene la parabola dell’argentino. Da quando è professionista, infatti, i giorni di torneo e quelli di infermeria sono numeri pressoché paragonabili. Ma quando si è presentato al via in condizioni accettabili ha dimostrato di essere, in un’epoca terribile per ritagliarsi uno spazio, uno dei tennisti più forti di quella che passerà alla storia come la generazione dei fenomeni. E, sempre alla Storia, del Potro consegna, quale eredità luminosa del suo passaggio, un dritto che può essere annoverato tra i colpi risolutivi più dominanti. Se quello di Federer fu frustata liquida, per l’apparente assenza di sforzo muscolare, quello di Juan Martin, al contrario, è stato volutamente archetipo di pesantezza e deflagrazione. Inconfondibile: apertura accentuata quasi a voler raccogliere tutta l’energia dello spazio circostante, un momento di silenzioso stacco prima dello swing e infine la cinematica del movimento che porta all’impatto con la pallina nella comfort zone dei giganti, quella della spalla. Boom, il martello di Tandil. Sul campo ha quindi saputo essere ferro ma senza mai tradire l’educazione di una mano competente anche con il fioretto e questo elitario connubio ne certifica l’appartenenza alla cerchia ristretta di coloro che hanno contribuito a sollevare l’asticella del gioco.
Un ragazzo buono, dai modi gentili e con lo sguardo sempre velato da introspezione, garbata gentilezza e una romantica forma di malinconia anche nei momenti più felici. Ciò a volerci ricordare che i campioni sono persone speciali ma pur sempre uomini, tra virtù e debolezze. E che, al pari di chiunque altro, per dare il meglio di loro stessi fanno la nostra stessa tremenda fatica.
Grazie di tutto, delPo.
Ci mancherai.
Teo Parini
ALLE PRESE CON UNA VERDE MILONGA, DI PAOLO CONTE
Alle prese con una verde milonga
Il musicista si diverte e si estenua
E mi avrai, verde milonga
Che sei stata scritta per me
Per la mia sensibilità, per le mie scarpe lucidate
Per il mio tempo, per il mio gusto
Per tutta la mia stanchezza e la mia mia guittezza
Mi avrai, verde milonga inquieta
Che mi strappi un sorriso di tregua ad ogni accordo
Mentre, mentre fai dannare le mie ditaIo sono qui, sono venuto a suonare
Sono venuto ad amare
E di nascosto a danzare

E ammesso che la milonga fosse una canzone
Ebbene io, io l’ho svegliata
E l’ho guidata a un ritmo più lento
Così la milonga rivelava di sé
Molto più, molto più di quanto apparisse
La sua origine d’Africa, la sua eleganza di zebra
Il suo essere di frontiera, una verde frontiera
Una verde frontiera tra il suonare e l’amare
Verde spettacolo in corsa da inseguire
Da inseguire sempre, da inseguire ancora
Fino ai laghi bianchi del silenzio
Finché Atahualpa o qualche altro Dio
Non ti dica: “Descansate niño
Che continuo io”

Ah, io sono qui
Sono venuto a suonare
Sono venuto a danzare
E di nascosto ad amare

https://www.youtube.com/watch?v=EuEfhz0OCwA

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