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‘Cari professori, vi scrivo’. Capitani, miei capitani (e Quintilliano)- di Camilla Scuri

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Potrebbe contenere informazioni obsolete o visioni da contestualizzare rispetto alla data di pubblicazione.

 

Vi scrivo per raccontare la mia esperienza scolastica, l’opinione che ho maturato negli anni durante la mia carriera scolastica, che spesso è stata dura.

Adesso vado all’università e sono felice, ma il ricordo di quei giorni torna spesso, e vorrei che il mio messaggio arrivasse ai professori, per ricordar loro l’influenza che hanno sui ragazzi, e del bene che giornalmente possono fare.

Ho fatto un liceo in provincia di Milano, e nonostante sia andata avanti con la mia vita da studentessa universitaria, il ricordo di quei periodi ancora mi fa pensare. 

Non per il ricordo delle verifiche o delle interrogazioni, non per i compagni e non soltanto per il carico di lavoro spesso sproporzionato, ma per il ricordo dei professori.

Cari professori, scrivo qui per voi.

Voi, che avete in mano il cuore degli alunni, le loro passioni, il destino delle loro vite. Avete il potere di farli appassionare per sempre a qualcosa che magari diverrà il loro futuro, oppure distruggere le loro speranze.

Il vostro potere e il vostro ascendente è immenso su quei ragazzi. Il vostro lavoro, sotto questo punto di vista, è uno dei più faticosi, dovete sempre essere attenti a ciò che dite, a ciò che fate, come vi comportate, perché avete davanti esseri umani che della vita sanno ancora poco, e dipendono da voi.

Ci sono di fronte alla cattedra dei ragazzi tutti diversi, con esigenze diverse, che imparano in modo diverso, apprendono concetti in mille modi, faticano ad apprenderli o magari non vogliono.

Sulle loro spalle, il carico di insicurezza tipico degli adolescenti, pronto a farli sprofondare nei momenti più cupi.

Da studentessa, ho visto cose assurde nell’ambiente scolastico, dagli scherni dei professori agli studenti, alle urla disumane, ai bidoni della spazzatura lanciati in classe (specifico: dai professori).

La verità, che spesso tendiamo a non ammettere, è che abbiamo troppi professori non motivati all’insegnamento, che diventa troppe volte il piano B per non essere riuscito in qualcosa d’altro. 

Abbiamo professori che non amano il loro lavoro e che agli alunni trasmettono solo paura e ansia.

Un ragazzo non deve andare a scuola con la paura di come si sia svegliato il professore al mattino, è impensabile che in uno stato come il nostro succeda molto spesso così.

E no, non sto dicendo che il professore non possa avere un brutto periodo, una brutta nottata o avere la luna storta: è umano, sarebbe disumanizzante non concederlo, ma il vero problema arriva quando la frustrazione di certe situazioni viene ripetutamente sfogata sui ragazzi.

Il vero compito dell’insegnante non è spiegare, è educare alla disciplina, trasmettere il valore della propria materia, non incutere timore all’allievo, che è lì per imparare.

Non nego che i ragazzi siano difficili, e qui arriva la sfida: urlare contro, assegnando compiti e pagine infinite, o avere la pazienza di fargli apprezzare qualcosa di nuovo? Vi siete mai interrogati su quale sia il vero mestiere dell’insegnante?

Quintiliano, poco meno di 2000 anni fa, l’ha illustrato molto bene nel suo capolavoro “Institutio Oratoria”, di cui citerei un estratto: 

“Abbia parecchio discorso sull’onesto e sul buono; infatti quanto più spesso avrà ammonito, tanto più raramente castigherà; non sia affatto iracondo, nè tuttavia sia dissimulatore di quelle cose che sono da emendare; sia semplice nell’insegnare, paziente della fatica, assiduo più che smodato.

Risponda volentieri a quelli che gli domandano; a sua volta interpelli quelli che non gli pongono quesiti.

Nel lodare le dizioni dei discepoli non sia maligno né esagerato, poiché una cosa partorisce tedio della fatica, l’altra sicumera

Nel correggere le cose che dovranno essere corrette, non sia acerbo e nient’affatto offensivo; infatti ciò appunto allontana molti dal proposito di studiare, certi maestri rimproverino, quasi che odiassero.”

In piccola parte sono stata fortunata, io qualche grande insegnante l’ho avuto, ed è lì che ho compreso questa grande differenza.

Dopo anni in cui non un professore era riuscito a farmi appassionare a qualcosa di scolastico in particolare, ormai senza speranza e senza voglia, stufa della scuola, un grande insegnante mi ha fatto riaccendere la passione e l’amore per le materie umanistiche, che da qualche anno vacillava.

Il carisma, lo scintillio negli occhi mentre spiegava, il trasporto che aveva mentre descriveva anche solo le declinazioni latine. Ma non solo, la gentilezza nel modo di porsi, la disponibilità nelle spiegazioni.

Un’eccezione, nella mia carriera scolastica, che ha fatto la differenza.
Poi ci sono i professori che hanno definito la mia (e di tantissimi altri studenti) carriera scolastica in negativo. Materie che prima amavo, sono state odiate e riempite di rimpianto per questo fatto.

Altre discipline ancora, in cui ho lacune o dove potrei dire inesattezze, a causa della poca preparazione degli insegnanti.

E si è visto che, più gli insegnanti hanno lacune, più hanno necessità di caricare i ragazzi a casa, di far svolgere in solitaria il lavoro che andrebbe fatto in classe. Lezioni contornate da frasi come “Grandi imperi come quello Romano e quello Cinese sono nati grazie al cristianesimo”

Ho avuto tre valutazioni in un giorno, carichi di lavoro pesanti e ravvicinati nel tempo, che per una ragazza di 14/18 anni con passioni e hobby, spesso erano troppo pesanti.

Adesso il pensiero sarà: “È il tuo dovere, questo dovevi fare, studiare, il resto sono distrazioni”, e non nego totalmente, il lavoro dello studente, dai 6 fino ai 26 anni (a volte di più, a volte di meno) è quello, perché lamentarsi?

Anche i miei professori, quando la classe si lamentava di più valutazioni (interrogazioni e verifiche) in un giorno, riceveva questo. Cos’abbiamo da fare, se non studiare?
Questa concezione credo che sia tra le più sbagliate che si hanno della scuola.
E questo, almeno nella scuola dove sono andata io, ha dato spesso adito ai professori di dire, con fare supponente, in piena fine quadrimestre, “Sono solo 70 pagine, cos’altro potete avere da fare?”

Con questo non dico che non bisogni studiare o dar da studiare, sono la prima ad amare lo studio e la cultura, ma la nostra vita non si deve ridurre a dannarci per questo. Bisogna avere il tempo (anche poco) per ricaricare la mente, anche per studiare meglio dopo. Parlo da ex-liceale, ma suppongo che negli altri indirizzi non sia tanto diverso.

L’Italia, nel 2020, secondo i dati Eurostat era tra i paesi con il più alto tasso di abbandono scolastico (13.1%)

È assurdo pensare che un paese come il nostro, con la sua millenaria e magnifica cultura, abbia un tasso di abbandono così elevato. Certo, c’è chi è svogliato, chi non è portato, chi non ce la fa.

Ed è questa l’opportunità: tendiamo una mano ai ragazzi svogliati, facciamo conoscere la bellezza di qualcosa di cui magari ignoravano l’esistenza, troviamo strade alternative per chi non è portato e chi non ce la fa.

Cari professori, appassionate i vostri alunni, tendetegli la mano anche quando vi sembrano i scansafatiche, avete la possibilità di far maturare questi ragazzi in un ambiente sereno, dove possono avere più opportunità.

Non sono lì per farsi giudicare o farsi guardare con sguardo sprezzante, sono lì per imparare, per crescere.

Non importa se siete in ritardo con il programma, se avete la verifica il giorno dopo o se non avete voglia di spiegare un determinato argomento, caricarli tanto in poco tempo servirà solo a far dimenticar loro quanto studiato.

Se è vero, come dice sempre Seneca, che” c’è un duplice vantaggio nell’insegnare, perché, mentre si insegna, si impara”, allora imparate i mille modi esistenti per portare il vostro sapere nei cuori dei vostri alunni.

Non mortificateli perché l’interrogazione è andata male, non scherniteli perché non conoscevano una risposta, spronateli a fare meglio e guardate con orgoglio i risultati di un lavoro fatto bene.

Non lasciate un ricordo amaro nelle loro menti, come è successo con me, non fateli guardare indietro pensando a come quel giorno li avete scherniti o sollevati di peso davanti all’intera classe perché avevate la luna storta.

Ricordatevi che quei ragazzi potrebbero essere i vostri figli, con le loro paure e insicurezze, con le loro passioni e i loro talloni d’Achille.

È indubbiamente difficile stare con i ragazzi 5/6 ore al giorno e dover correggere anche i loro compiti a casa, vedere magari 80 ragazzi diversi in quelle poche ore e ricordarsi i loro nomi, ma alla fine, quando vi ringrazieranno per aver fatto amare loro tale materia e averli accompagnati lungo la strada, sarete più gratificati anche voi.

Ricordate ai vostri ragazzi che le valutazioni non sono tutto (anche se sono importanti), e che loro non sono dei numero. Non diteglielo a parole, dimostrarglielo con i fatti, con i gesti.

Loro il giorno dopo aver preso una valutazione in rosso, esisteranno ancora, e avranno la possibilità di riprovarci, perché il “voto in rosso” non è sinonimo di fallimento. Non fateli sentire tali a causa di un numero.

Cari professori, non dimenticate la vostra parte umana a casa, perché il vostro lavoro necessita anche di quella sfaccettatura, che spesso può fare la differenza.

Avete uno dei lavori più importanti e difficili al mondo, parlate ai loro cuori, non alle loro orecchie.”

“Vix autem dici potest, quanto libentius imitemur eos quibus favemus.”

-Quintiliano

(“A malapena si può dire, poi, quanto più volentieri imitiamo coloro che ammiriamo.”)  

Camilla Scuri

 

Questo articolo fa parte dell'archivio di Ticino Notizie e potrebbe risultare obsoleto.

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