Martina, la garanzia in un nome che è leggenda
Martina Trevisan è una tennista di grande qualità. Una premessa doverosa, perché gli addetti ai lavori durante queste due esaltanti settimane parigine hanno posto l’accento più sui suoi dolorosi trascorsi di salute che sul livello di gioco messo a punto con caparbietà dalla giocatrice fiorentina. Uscire dall’incubo dell’anoressia e riabbracciare la vita dando il meglio dei suoi vent’anni è ovviamente il successo più importante, ma continuare a ripeterlo a monte e a valle di ogni vittoria conseguita sul campo, come se l’attualità fosse solo un risarcimento divino alle sfighe passate, rischia di sminuire ingiustamente la portata dell’impresa compiuta. Dieci match vinti in fila, otto per due set a zero, il trionfo a Rabat – primo hurrà in un torneo WTA – e soprattutto la semifinale Slam di Parigi. Persa onorevolmente ma condizionata da un comprensibile accumulo di stanchezza dettato dalla striscia vincente di cui sopra e da un quadricipite duro come un sasso. Quindi, nove anni dopo Sara Errani, un’altra azzurra è tornata a disputare il penultimo atto in Bois de Boulogne ed è un toccasana per il movimento in gonnella che fatica a riproporre i fasti della fenomenale generazione che l’ha preceduta.

Martina, classe 1993, è tennisticamente molto più fresca delle sue ventotto primavere grazie a un motore che conta diverse partite in meno delle sue coetanee. Questo perché dopo una carriera juniores da predestinata, lei che a sedici anni già vinceva match del circuito Pro, ha scelto di appendere la racchetta al chiodo per regalarsi una vita normale. In un’età nella quale normalità non vuole dire certo il sacrificio estremo che impone lo sport. Finisce gli studi, insegna tennis al circolo, si schiarisce i pensieri, scaccia ogni malessere. Per quattro lunghi anni, tanto infatti è passato dall’ultimo incontro al primo della sua nuova avventura, resta lontana dai riflettori e dai traguardi che un talento purissimo impresso nei cromosomi lasciavano presagire fin da bambina. Un’eternità in ambito professionistico, ancora di più nello sport del diavolo, ma quello che è certo è che il fuoco non si era ancora definitivamente spento. Una volta chiesero a un giovanissimo John Lennon che cosa volesse diventare da grande. “Felice”, fu la risposta. La stessa risposta che con encomiabile serenità Martina riservava a tutti quelli che le domandavano, peraltro peccando di sensibilità, quando sarebbe tornata a giocare.
Nel 2014 comincia la scalata, dove i primi gradini sono costituiti dal pane duro dei tornei ITF: poca organizzazione, pochi soldi, campi impresentabili, la fame insaziabile delle aspiranti campionesse. Con il passare delle stagioni i teatri si rendono via via più prestigiosi e già nel 2018 sfiora l’accesso nel main draw del Roland Garros, quello dei grandi. La classifica comincia a sorridere tanto che lo spartiacque delle top 100, a 2019 inoltrato, non è poi così lontano. Il resto è storia recente, la storia di una meravigliosa cavalcata sul mattone tritato in Porte d’Auteuil che ne certifica lo status di giocatrice da prima fascia assoluta. Non è un bluff. Arrivata a Parigi con alle spalle l’inerzia positiva e la fiducia nei suoi mezzi che solo i successi possono dare, Martina ha portato il suo tennis inconfondibile all’attenzione di un pubblico distratto ma che ha imparato in fretta ad apprezzarla.
Centosessanta centimetri a essere generosi, Trevisan – mancina e come spesso accade risulta un plus – ha talento da vendere, ciò nell’accezione corretta che traduce la capacità di fare con semplicità cose che altri non fanno. Il dritto uncinato con il quale disegna con rigore euclideo la diagonale sinistra, per esempio. Alternando con sagacia una versione di manovra, dalla biomeccanica di nadaliana memoria fatta di top spin esasperato e uno swing non convenzionale simile a quello di un cowboy che si prepara al lazo nel bel mezzo di un rodeo, a una più risolutiva, meno lavorata dunque penetrante come una lama, uno schiaffo la cui energia cinetica nasce dalla velocità di braccio più che dalla mole del bicipite. Il resto è un bagaglio completo ma ulteriormente migliorabile grazie a un lato destro, quello del rovescio bimane, colpito decisamente piatto ma con risultati affidabili, unito a una capacità mentale di abbandonarsi senza riserve alla lotta, attitudine che meravigliosamente fa da contrasto al corpicino minuto che piedi veloci fanno rimbalzare sul campo come una pallina da flipper. Buona la mano, che non sarà quella vellutata di Martina Hingis – tanto per scomodare la più recente delle omonimie prestigiose – ma nemmeno quella impresentabile di Coco Gauff, la diciottenne che l’ha battuta ieri e che nonostante ciò forse dominerà le classifiche in un futuro non troppo lontano.
E poi sorride sempre, anche quando in un match sale alta la tensione. Un modo insolito, ma che empatico lo è di sicuro, per esorcizzare il momento. In questo, per chi se lo ricorda, somiglia un po’ al Basso del pedale, a cui la fatica estrema di una salita portava ad abbozzare un sorriso disarmante per il morale degli avversari. Del resto, per una che si è inventata non una ma due volte cosa vuoi che sia dover fronteggiare una palla break. Lunedì, intanto, Martina farà irruzione entro le prime trenta giocatrici al mondo con il sempre affascinante traguardo di migliore italiana scavalcando la nostra croce e delizia per eccellenza, Camila Giorgi.
Le vicissitudini dolorose messe alle spalle che oggi fortificano la personalità di Martina sono un importante precedente che si spera possa aiutare le troppe ragazze che vivono una parentesi delicata della propria esistenza. Tuttavia, ai racconti strappalacrime che scavano nel suo passato complicato e che spesso lo fanno in maniera strumentale, è giunta l’ora di privilegiare la narrazione di quanto Trevisan è in grado di fare con la racchetta. Perché se lo merita.
Complimenti Marti, il bello deve ancora venire.
Teo Parini