«Molti nemici molto onore» recita un antico detto, ma se i nemici sono troppi la sconfitta è certa e l’onore lascia il tempo che trova. Marine Le Pen doveva vincere contro i socialisti; contro i post-gollisti; contro Jean-Luc Mélencohn, che la insidiava da sinistra; contro Emmanuel Macron, che la insidiava dal centro e dalla destra; contro il minacciato assenteismo alle urne, mai rivelatosi così gigantesco nella sua attuazione (il 57% di non votanti); contro un sistema elettorale che favorisce la governabilità a scanso della rappresentatività; contro il suo stesso partito, litigi, colpi bassi, vecchi fantasmi.
Se e come funzionerà è presto per dirlo, e non è comunque materia di questo articolo. Più interessante è chiedersi se il trionfo del «globalista-europeista» Macron rappresenti l’inizio della fine dei cosiddetti «populisti-sovranisti».
Una prima osservazione è che in Francia il populismo si è, come dire, splittato, andando a ricreare nel suo interno la vecchia dicotomia destra-sinistra. C’è d più, quello della France insoumise di Mélenchon ha una consistenza di gran lunga superiore al Front National, all’incirca il doppio dei deputati e un gruppo parlamentare a sé. Ciò significa che non solo il Front National non ha più il monopolio di quel terreno, ma che difficilmente in futuro ci potrà essere per i due schieramenti una convergenza sia elettorale sia politica. Se si calcola che al primo turno delle presidenziali avevano rappresentato in totale il 40% dell’elettorato, si capisce come si tratti di un’opposizione forte, ma sterile, la somma impossibile di due debolezze.
La seconda osservazione è che il populismo-sovranismo per crescere ha bisogno della decadenza. È una sintesi brutale, ma rende l’idea. Ciò obbliga i suoi rappresentanti a sperare che le ricette economiche, politiche, sociali di chi governa si rivelino fallimentari, ma provoca anche una preoccupante carenza di analisi e di alternative plausibili. Questo inserisce il terzo elemento. Il populismo-sovranismo interpreta le ansietà e i disagi dei cosiddetti perdenti della globalizzazione, ma non riesce a convincere chi, pur preoccupato per la profondità della crisi, non è ancora nella condizione piscologica di accettare un cambio tanto radicale quanto imprevedibile. C’è di più: quel disagio, elettoralmente, si concretizza soprattutto nell’astensione, nel non voto, è una protesta passiva, è il rifiuto di un sistema, ma non l’adesione convinta a un sistema alternativo.
Tutto, in conclusione, finisce per girare intorno alla questione dell’euro e qui i populisti-sovranisti debbono farsi un bell’esame di coscienza, perché lo sbandieramento di un’uscita di cui si sa l’impossibilità pratica a livello nazionale, mette il piombo nelle ali di qualsiasi possibilità di allargamento elettorale e predispone a una battaglia partitica che soddisfa soltanto chi con quella battaglia si assicura un posto in parlamento. È insomma il trionfo della partitocrazia e non dell’interesse nazionale.
Ai francesi si sa, piacciono le rivoluzioni quanto il bonapartismo; le prime incarnano le sue passioni più profonde, il secondo il freno che le corregge e le incanala in una sorta di edonismo nazionale tinto di grandeur. Macron in fondo ha vinto perché scongiurando la prima permetteva però di sognare il secondo. Bisognerà vedere se riuscirà a incarnarlo e il sovranismo potrà avere un seguito solo se quell’incarnazione si rivelerà una finzione senza sostanza. Ma, nell’attesa, si deve attrezzare e studiare. Se l’estremismo è stata la malattia infantile del comunismo, il semplicismo rischia di essere la malattia senile del populismo.
Di Stenio Solinas (tratto da Il Giornale)
da www.iltalebano.com