MAGENTA – Gli esseri umani vivono un tempo ordinario, nel quale sono scandite le nostre azioni abituali della giornata, della settimana, del mese e persino dell’anno. E così come noi, anche i bambini vivono il loro tempo ordinario fatto di azioni che si susseguono cronologicamente: svegliarsi, fare colazione, andare a scuola, andare in piscina. In questo momento loro avvertono un sentimento particolare: la perdita del tempo ordinario.
Quello di oggi è un tempo nuovo e non sempre comprensibile.
Dobbiamo aiutare i più piccoli a gestire bene questo tempo, che rischia di diventare troppo pieno o troppo vuoto, troppo leggero o troppo pesante. Diventa troppo pieno quando, sotto la preoccupazione dei giorni di scuola che si perdono, genitori e docenti sommergono i bambini di compiti scolastici, siano essi proposti con la didattica a distanza oppure con le tradizionali modalità, consigliate tramite whatsapp. Diventa troppo vuoto quando i bambini vengono lasciati liberi di gestire il loro tempo che risulterà ancora di più “vuoto”, soprattutto se riempito con videogiochi, o con l’uso dei social se più grandi. Est modus in rebus: la misura tra i due poli estremi è la migliore risposta educativa.
Affinché non diventi troppo leggero o troppo pesante è utile far vivere e sperimentare ai bambini una dimensione del tempo che ha una grande forza educativa, l’attesa, ed io, essendo una studentessa di scienze umane, mi sono soffermata ad analizzare proprio questo aspetto, sia per bambini sia per noi piccoli adulti.
La perdita del tempo ordinario crea anche in loro, e non solo in noi adulti, disorientamento, incertezze, preoccupazioni e paure. Non dimentichiamo il fatto che noi siamo spinti dalla coazione a ripetere, di freudiana memoria, da cui ricaviamo sicurezza, tranquillità e fiducia che vengono meno quando si interrompono le ritualità secondo le quali sono scandite le nostre azioni. Queste incertezze, preoccupazioni e paure aumentano nei bambini quando vengono lette, per quanto celate, nel viso dei propri genitori e delle persone care. Non voglio dire che dobbiamo nascondere loro i nostri timori e i nostri dolori, poiché ai bambini non bisogna nascondere nulla, ma abbiamo il dovere di aiutarli e aiutarci a vivere al meglio questo tempo. Prima di tutto ci dobbiamo sforzare di trasmette loro l’attesa di tempi migliori, la fiducia nelle capacità degli uomini di saper affrontare le sciagure che si possono incontrare nella vita, la speranza che possa tornare a risplendere il sole.
L’attesa del tempo migliore si realizza se ciascuno di noi, e ciascuno di loro, rispetta le regole che ci sono state suggerite, comprendendone il significato scientifico ed etico.
Vorrei tanto facessimo in modo che questo momento porti avanti uno degli aspetti assegnati all’insegnamento dell’educazione civica, (re)introdotta recentemente nelle scuole di ogni ordine e grado: il rispetto delle regole. Insegnare le regole del vivere e del convivere è per la scuola un compito oggi ancora più ineludibile rispetto al passato, perché sono molti i casi nei quali le famiglie incontrano difficoltà più o meno grandi nello svolgere il loro ruolo educativo.
L’attesa non riguarda solo un futuro migliore, ma anche l’antidoto alla fretta, alla velocità, alla frenesia con le quali noi adulti gestiamo il nostro tempo e di conseguenza anche i bambini. Questa attesa, come dimensione temporale, per non essere evanescente e non percepibile, deve accogliere un’altra categoria: la lentezza, e quindi abituarci e abituarli a compiere le tradizionali azioni di tutti i giorni con maggiore distensione, senza fretta e frettolosità, a rallentare le azioni tradizionali per assaporarle maggiormente, per riflettere sul loro significato e per trovare una maggiore interiorizzazione dell’agire in modo che possa perdere la stereotipia imposta dalla fretta di tutti i giorni. La lentezza può riguardare il tempo che viene dedicato al mangiare insieme, all’igiene personale, al mettere ordine nella propria stanza e di conseguenza nella propria mente.
Come dice il celebre Lamberto Maffei nel suo libro “Elogio della lentezza”: “Il desiderio di emulare le macchine rapide create da noi stessi, a differenza del cervello che invece è una macchina lenta, diventa fonte di angoscia e di frustrazione … La netta prevalenza del pensiero rapido, a partire da quello che esprimiamo attraverso l’uso degli strumenti digitali, può comportare soluzioni sbagliate, danni all’educazione e perfino al vivere civile”.
Il “tutto e subito” ha fatto scomparire dal mondo del bambino l’attesa che genera il persistere del desiderio che, a sua volta, è fonte di piacere talora più del suo soddisfacimento. Questo lo noto anche in noi adolescenti e soprattutto in un momento come questo, dove il “tutto e subito” per ovvie motivazioni non può esistere, e ci si trova ancora più spaesati.
L’attesa di un futuro migliore, la lentezza delle azioni ordinarie, l’attesa nella realizzazione di un desiderio, ci permettono anche di far maturare l’idea che il “tempo di attesa” non sempre è un tempo negativo che genera insofferenza. Quante attese ci rendono nervosi: l’attesa del treno, nelle sale d’aspetto, nelle file ai servizi pubblici? Forse siamo schiavi del tempo. Forse il recupero dell’attesa, necessario a mio avviso da considerare di questi tempi, ci può aiutare a non prendere in mano subito il cellulare appena sentiamo lo squillo che ci annuncia un SMS in arrivo e a non chiamare l’amico al telefono dicendogli: “ti ho mandato un sms, perché non hai risposto?”, e forse comprendere il bello dell’attesa, del tempo, per assaporare di più il dopo.
Adesso, qui ed ora, comprendo il valore del tempo, e di quanto spesso siamo portati a non considerare troppo il momento, poiché frequentemente siamo portati a dare tutto per scontato, la felicità, la tristezza, gli eventi spiacevoli ma soprattutto quelli piacevoli, le persone, senza viverli intensamente.
Rinchiusa tra queste mura iniziano a farsi spazio pensieri ed emozioni, che magari prima non avevo il tempo di analizzare con cotanta pienezza: l’incertezza del presente, il grande dubbio sul futuro, i rimpianti e le nostalgie del passato. Tutto si gioca sempre ed ancora sul tempo. Trovo conforto nella musica, c’è sempre per me, ad aspettarmi nei momenti no e in quelli si. Trovo conforto nelle videochiamate che ci facciamo tra amiche quasi tutte le sere, ricordando i bellissimi momenti passati insieme e promettendo altri mille ancora così, ma promettendoci anche di viverli sempre appieno. Trovo conforto nelle videochiamate che faccio con i miei parenti e amici che vivono in altre nazioni, o addirittura continenti, che mi chiamano preoccupati per la situazione nel nostro paese, trovando del tempo per me, per noi, da dedicarci, ma anche preoccupati per quello che potrà succedere a breve anche nel loro paese, se già non è accaduto, perché questo virus, ormai pandemia, non guarda in faccia nessuno, non gli interessa che lingua parli, che vestiti indossi o che orientamento sessuale segui, dove sei nato, dove vivi o cosa mangi.
Sono una persona molto grata e questo mi aiuta a riconoscere ciò che arricchisce le mie giornate e a valorizzarle e anche in questo momento, non semplice, che stiamo vivendo, cerco di rimanere presente a me stessa e all’ambiente osservando il problema e cercando di allargare la mia visione per cogliere le risorse e le potenzialità che può offrire e per sviluppare un modo funzionale per viverlo.
Cosa penso abbia portato di positivo, per quanto possa esserlo, questo maledetto virus?
Le aziende hanno scoperto lo smart working. Si può lavorare meglio, la produttività aumenta, le persone potranno costare di meno, ci saranno più posti di lavoro, la gente si muoverà di meno e sarà più soddisfatta; avremo acquisito una grande esperienza di gestione di problematiche complesse e inaspettate, che la natura, più forte di noi, può sempre prospettarci; abbiamo ritrovato uno spirito di nazione unita che può sempre venire utile e buono, e che ci potrà aiutare a comprendere meglio le ragioni degli altri; i partiti capiranno (qui sto più esprimendo una speranza che una certezza…) che conviene mettere, davanti ai propri interessi, quelli del paese; abbiamo imparato a stare insieme nelle case riscoprendo piaceri e modalità dimenticate nel passato; riscopriremo alcuni valori dimenticati tipo la calma nel fare le cose, il rispetto nei confronti dell’altro, il valore della comunità, la lettura; abbiamo imparato a cercare alternative allo status quo che, troppo spesso, impigrisce e impoverisce l’intelligenza.
Blaise Pascal diceva: “Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo” e, forse, in questo caso, non aveva proprio torto.
Avere uno sguardo positivo sul negativo, a mio avviso, non significa banalizzare ottimisticamente il negativo, ma significa, una volta riconosciuta la ferita del negativo, sperare che esso non fecondi, operando, anche in questo caso con tutte le forze, affinché esso non si trasformi nella sola luce con la quale illuminare tutta la realtà. “La speranza non è l’ottimismo” dice Silvano Petrosino, un filosofo che abbiamo avuto il piacere di vedere e di seguire da vicino.
Dovremmo cercare tutti, in questo delicatissimo momento, di vedere il “bicchiere mezzo pieno”.
Ci sono cambiate le giornate, le abitudini, i comportamenti. Siamo disorientati, confusi, ma dobbiamo, secondo la mia opinione, cercare il lato positivo di questa drammatica esperienza che nessuno di noi si aspettava di vivere. Al di là dei dolori, delle sofferenze, dei rischi e delle incognite che ci stanno accompagnando in queste ore di “nuova solitudine”, credo potremmo avere la grande occasione di riscoprire alcuni temi della nostra vita trascurati. Di ritrovare cioè certi momenti “di pensiero” non sempre e soltanto condizionato dal business o dall’egoismo anche se affettivo. Potremmo per una volta essere meno robot, educati al profitto, e più umani dedicati all’altruismo e alla solidarietà, invece di essere reclinati su noi stessi, miopi e chiusi dalle sollecitazioni dei meno fortunati, dobbiamo approfittare di questa emergenza per alzare lo sguardo e uscire dalla logica dei nostri occhi esclusivamente puntati sulle nostre scarpe. Dobbiamo ritrovare il piacere e la gioia di tempi più lunghi, di pensieri più articolati, di pause salutari per scoprire, prima di tutto il resto, che noi italiani, come ci raccontava recentemente Oscar Farinetti, siamo molto fortunati.
Senza alcun merito siamo nati in un territorio che ha un ecosistema fantastico, unico al mondo e che ci ha sempre permesso una qualità della vita straordinaria e invidiata da tutti gli stranieri. Oggi il Coronavirus ci impone uno stop, una pausa di riflessione. Lo supereremo, ma mi auguro che ne valorizzeremo l’esperienza per acquisire maggior consapevolezza della nostra fortuna, al di là dei nostri meriti. Nei momenti più tragici della nostra storia, noi italiani abbiamo dimostrato con orgoglio e spirito identitario, di saperci rimboccare le maniche e riprendere il cammino: lo faremo anche questa volta, mi auguro, lo ripeto, in modo più virtuoso, con maggior serietà, responsabilità e visione solidale, ricordando che, ad ogni notte, per quanto buia possa essere, seguirà sempre un’alba, e noi saremo qui, ad aspettarla con occhi diversi, con una mente diversa.
Vanessa Kirchev 4ªB Scienze Umane Liceo Quasimodo