Treaprile
Mi toccherà portarlo con me, mi toccherà farmi accompagnare o devo trovare un modo per assicuragli il nutrimento, che poi in questa fase è solo una leggera stilla d’acqua, come fosse una lacrima che scende dal cielo. Un trasporto che se non fosse il periodo specifico lo lascerei in pace lì dov’è. Ma il momento, quello che per i cristiani è la rinascita dopo il tormento dell’anima, quel tormento che sconvolge l’io e che scava dentro la ribellione di obbedire, di essere intransigente giudice di se stesso, mi obbliga a comportarmi diversamente. E allora quella stilla dovrò provocarla io anche se temo che il viaggio, ora, possa essergli insopportabile, al “vassoio” intendo.
Più tardi invece, nell’autunno che verrà le cose saranno differenti, diverse; la maturazione sarà compiuta e loro si saranno già fatte il passaggio ad agosto, nella nostra vacanza comune. Così si saranno acclimatate. Acclimatate alla temperatura, caldo a volte insopportabile durante la giornata, quasi freddo, financo freddo quando, le nuvole, stanno giù sino a terra, che sei tutto fradicio se te ne stai fuori; quella tela incredibile che ammanta ogni cosa e che non ti fa vedere a un palmo dal naso.
Ricordo ancora lo stupore mio e della Li quando, la prima volta ne vedemmo la comparsa “mah?” fece lei sbigottita del fenomeno. Ecco anche loro potrebbero rimanere così, ”mah?” e allora meglio prepararle piano piano, st’estate che così il tormento, se tormento deve essere, che sia leggero, che avvenga mentre io, di lato, vicino, pronto a rimediare qualcosa se ci si dovesse mettere anche il vento. Quel vento che la sera prende ogni foglia, scende dal bosco, con le sue fragranze, con gli odori dell’umido sotto l’edera strisciante, sotto quell’intricato groviglio di rovi, nelle pieghe delle ginestre che hanno perduto tutti i fiori, oramai, ad agosto; tra le balze dove svettano erbacee filiformi e altissime (come tre giovani caprioli, compagni che sfuggono alle trappole del lupo), piegate dal respiro della foresta in miniatura che si compara a quella mia, quella più minuscola ancora, quella nel “vassoio”.
Mi pare di vedere e udire già il discorso, “intrusi che vi credete di fare? Vi seccherete il prossimo inverno asciutto!” forse che quei semi porteranno, con i loro minuti tronchi, a noi altri argomenti? Questo movimento, indotto o meno da me, ma insomma dall’uomo in generale, artefice del niente ma propiziatore del tutto, nasconderà la verità?
Si ritorna al desk, a sentire alcune delle stanche vicende. Una fra le tante cui rispondo, comunque, sempre senza sottrarmi agli obblighi che posso sbrigare, anche se a volte con qualche orticaria.
Una però è particolare, fa così:
“Buongiorno a Te Anna, scusa Annina, effettivamente siamo arrivati ad aprile e come il proverbio ne è pieno un barile … ma per il momento solo di fastidi, di più non dico e non Ti tedio, lo so’ basto io.
Mi auguro veramente di poter chiudere quanto prima queste pendenze che mi punzecchiano l’anima, che così anch’io non sono affatto sereno. Credo Tu comunque possa capire. Sto comunque sovrapponendo alcuni piccoli mattoncini che dovrebbero portare un filo filo di aria nei prossimi giorni. Con tutto questo ovviamente qui non funziona praticamente più nulla, Ursula[1] ha dato sostanzialmente forfait, funziona un giorno su dieci, un successo! Brigida a volte si avvia da sola, Marzio e Giorgio, che come ben sai sono ursuladipendenti, sono praticamente spenti. Che sia la guerra delle donne, la rivolta delle scimmie (come in quel vecchio film strong di fantascienza, nessun riferimento maschilista). urlatrici? Mah!
Solo il mio Ulisse resiste in questa tempesta; certo a volte tra i flutti intravedo qualcosa ma mi accorgo che è solo la spuma sulla cresta dell’onda, tra bagliori, lampi, tuoni e sconquassi, la testa verrebbe catturata, se ci fosse….; spingo la prua in avanti, tendo le vele ma anche lo sguardo, cerco di ascoltare il mondo. Là, in mezzo al tutto, il petto batte forte, non sento ne freddo ne caldo, ho solo la tenacia del marinaio, la fatica mi nutre, avanti, avanti …
In tutto questo altre avventure, altre pentole da riempire. Un abbraccione forte, comunque tengo duro ciao”.
Camminavo poc’anzi, ne piano ne veloce, è passato di fronte a me e ha scavato, poco per la verità, nel solco dei ricordi ed è riemerso.
Pensavo, una volta di abbattere quelle ceneri che aleggiavano sopra la mia testa, scrivendo di lui, e forse avrei voluto scrivere di me e del mio babbo, di me e del rapporto a volte ostico, che s’aveva noi due e sin dall’inizio forse ma forse non è neppure così, quel rapporto che si è incagliato a volte e che, ho costantemente cercato di rimorchiare in porto, magari per aggiustarlo. Ma perché diamine non si insegna ai figli di insegnare ai genitori, che qualche volta nelle fiabe capita di vederlo. Lo ricordo bene quel fatto.
S’era di inverno e sto’ ragazzo, che poi sono io, dopo una scatola buona di pavesini, Dio com’erano buoni nel the, che forse a letto con la febbre mi ero gustato, dopo sta’ ingordigia quindi, febbre e sudore avevano riempito la fronte e il pigiama. Arriva il medico della famiglia, che come una volta usava, faceva tutto, proprio come capita di vedere nei film in bianco e nero e non solo americani. Quest’uomo con quelle orecchie lunghe, flessibili e irte di peli come la testa dell’ippopotamo, che mi ballavano sopra gli occhi, lo vidi tra il luccichio delle pupille arrossate e quello sentenziò “ospedale!”
Fu tutto veloce, neanche ricordo come c’arrivammo all’ospedale, che quello di allora, bello sarebbe stato oggi come museo (ma è un’altra storia che si mi ricordo la racconto dopo), era una sorta di quadrato con il cortile centrale, forse giallino o bianco, l’aria fredda mi saliva sin sulla pancia dalle gambe scoperte, non vidi l’ago uscire.
Avevo perso il senso dell’orientamento, non capivo dove fossi, come fossi arrivato li, una confusione totale, l’effetto dell’anestesia fu micidiale; me ne sarei ricordato anni dopo, esorcizzando la vicenda per evitare il disorientamento (e in effetti ci riuscii). La mamma era li vicino, accanto a me, questa donna che stoicamente sopportava tutto e che forse dopo, scocciata, non avrebbe sopportato più nulla o comunque poco; mi consolava come del resto fanno buona parte delle mamme, senza nulla chiedere in cambio. A fianco di me un altro ragazzino, forse più piccolo, anzi ora che la memoria riaffiora certamente più piccolo, almeno la metà dei miei quattordici anni, accanto a lui un uomo, grande, così almeno sembrava a me e certamente lo era perché anni dopo, la figura aveva conservato le medesime proporzioni. Quest’uomo, due folti e larghi baffi, che nel tempo avrei visto incanutirsi piano piano, il sorriso che lasciava vedere due larghi e distanti incisivi, elemento che donava all’uomo un aspetto bonario e dolce quando sorrideva che al contrario, invece quando se ne stava lì a labbra serrate, per il fatto che il baffo calava sul labbro, gli conferiva un aspetto quasi truce, e dato che era pure siculo, il tutto, corroborato dall’immancabile coppola nera, non sortiva l’effetto più dolce del mondo. Ma quest’uomo se ne stava in realtà serrato appresso a quel figliolo, che doveva starsene peggio di me, se io l’avevo scampata, di peritonite acuta si moriva, si muore ancora adesso senza cure, lui non sembrava stare molto bene. Gemeva, si lamentava, non mangiava, non s’alzava, era lì da prima di me e quando uscii stava ancora lì.
Per alcuni mesi, forse qualche anno il viso dell’uomo baffuto è scomparso dal mio sguardo, poi una mattina, io già grande lui con una calvizie che si stava armeggiando attorno alla pelata a più non posso, l’ho incontrato, pedalava quasi stancamente, per anni poi, ho incrociato quest’uomo, accanto alla piccola chiesa in fondo al paese, in quella via che sulla destra mostra i residuali gotici, io da un lato lui dall’altro. Negli anni i baffi hanno perso il colore ma non il vigore, anche la calvizie si è fermata, una leggera trama nera, diradata scorreva sul cranio lucido, d’inverno la coppola e d’estate niente. Per un lungo tempo ci siamo incrociati e non so dire quale strano orologio ci facesse incontrare: forse avrei dovuto dire lui qualcosa, forse avrebbe voluto dirmi lui qualcosa, forse ci saremmo salutati se uno di noi si fosse, anche solo per un istante, fermato e osservato, magari per una frazione di secondo questo è avvenuto, ma poi il traffico della vita ci ha avvolto.
Ad un tratto nel tempo non l’ho più visto.
Oggi, come da un reframe lui o forse il figlio, la copia del padre, è stato un attimo, ma ha girato l’angolo è scomparso, ancora da dietro ai mattoni.
Fuori l’aria si sta rifacendo al fresco, è greve, carica di pioggia, tra un momento il cielo piangerà.
[1] sono i nomi che ho affibbiato ai miei computer; numeri o altro mi son parsi da subito brutti e, dopo un iniziale periodo tra santi e altro, ho risolto la faccenda con nomi esotici, lo trovo meno importante, più scanzoniero, perchè la vita va presa anche un po’ così